Folla in solitudine
di Isabella Ferrara
Al teatro Bellini, Si nota all’imbrunire (solitudine da paese spopolato) di Lucia Calamaro è una profonda riflessione sulla solitudine e i rapporti umani, interpretata da un superlativo Silvio Orlando
NAPOLI, 7 maggio 2019 - Solo in scena, immerso in una luminosità leggera di luci e colori tenui, ecco il protagonista Silvio, l’attore napoletano Silvio Orlando, in vestaglia da notte, in quel risvegliarsi del mattino in cui si pensa tra sé e sé, in attesa della sveglia dei propri cari, dell’odore del caffè, delle piccole attenzioni di chi amiamo e ci ama.
Ha inizio un cogitare sulla solitudine che pare essere temporanea, circoscritta, provvisoria nell’attesa. Ed eccoli finalmente i cari familiari che ci incontrano al risveglio; coloro che stavamo aspettando impazienti, desiderosi di vederli, sentirli, averli accanto, li abbiamo quasi chiamati ad alta voce per attirarli a noi, o abbiamo solo pensato di volerlo fare.
Gli attori sul palco sono cinque, eppure sembrano una folla. Quattro persone in più intorno a noi, che ci parlano, ci chiedono attenzione, parlano fra di loro, agiscono, si muovono, sono una folla se si è abituati a star da soli. Sono una folla di parole, pensieri, abitudini, disagi, nervosismi. Una folla di altrettante solitudini che si toccano, incontrandosi e scontrandosi anche, che si ritrovano. Non stare soli per trovare il modo di aprirci agli altri, per insegnarci, o forse spingerci, a chiedere di essere ascoltati, accolti, compresi, abbracciati. E Silvio lo fa, abbraccia a turno i suoi figli, a suo modo, disabituato, quanto loro stessi, al contatto fisico, all’affettuosità, all’energia che un abbraccio scatena. Silvio, uomo e padre, marito e fratello, vive da solo da anni ormai in un paesino spopolato, lontano dalla sua famiglia, dai suoi affetti ma anche dai problemi che affliggono le singole vite dei suoi cari, e che pesano come giudizi, come richieste mute di una via d’uscita. Ogni attore dialoga e interagisce con tutti gli altri, in questo modo racconta di sé. A tratti, poi, sembra parli solo a se stesso, cercando una spiegazione, un conforto, quella comprensione dell’altro che, nel suo tratto più pirandelliano, risulta impossibile e irraggiungibile, condannando l’essere umano ad una solitudine che va in fondo, fino all’introspezione filosofica più che psicologica; fino alla ricerca di un pensiero compiuto che giustifichi un dolore, una sofferenza dello spirito, o che spieghi semplicemente il pensiero stesso, inseguendo le trame della memoria per tornare ad aggrapparsi alla realtà del presente. Un salto interiore da ciò che si è avuto ed amato, a ciò che si ha e si fa nell’adesso.
La logica del fare è un filo che lega tutti i personaggi fra di loro, contribuendo a tessere la trama del racconto. Lo spettatore è accompagnato nel passaggio dal piccolo fare quotidiano di Silvio che vive da solo, legge bei libri di poesia, ascolta musica colta, e fa la spesa al supermercato; che, soprattutto, resta seduto sempre più tempo, in una inattività, emotiva più che altro. Egli stesso si rammarica che questo fare non basti a riempire la vita. C’è poi il fare della figlia Maria Laura, che non si ferma mai, noiosamente attende alle faccende domestiche, e si concentra su piccole banalità del fare, che mai riguardano i sentimenti e le emozioni. Alice, la sorella, non fa. Non vuole fare, evita la responsabilità dell’agire. Riccardo, il figlio, fa in modo discontinuo, e mai nulla di concreto per la sua vita. Infine Roberto, il fratello di Silvio, sembra fare più con la fantasia che realmente, ancorato alla sua cultura che gli riempie il tempo, rapendolo alla quotidianità. La logica del fare, con se stessi, dentro se stessi, e con gli altri, in relazione e in contatto, è la logica della vita, ne è la materia di cui si sostanzia, è la realtà tangibile, oltre il filosofico indagare.
Il testo di Lucia Calamaro è più complesso di quanto possa apparire, le frasi sono costruite ed elaborate con colta dovizia e cura dei dettagli lessicali; eppure scorrono fluide come una filastrocca per bambini ben recitata. Riflessioni profonde, che potrebbero causare un mesto ripiegamento interiore, sfidando alla ricerca del senso della vita, dei rapporti umani, delle incomprensioni e delle solitudini. Ma che arrivano allo spettatore come le caramelle gratuite in una sala d’attesa. Sono colorate, sono semplici e comprensibili, sono a portata di mano, eppure sono da consumare con cauta parsimonia. Lasciano la sensazione di avere davanti quel filo logico che spiega tutto, da cui si dipana il senso, ma di non riuscire ad afferrarlo perché continua a sfuggire, scivolando via con una risata per una battuta d’ironia d’autore tanto inaspettata quanto piacevole. Non è ingannevole un testo che prima ti circonda con frasi di stampo filosofico, sociologico, con momenti di disagio emotivo, e poi d’un tratto scioglie la tensione in una risata, in un momento di divertente rilassatezza. Non è ingannevole perché è, invece, proprio come la vita, profondamente seria in quanto unica, e proprio per questo da non sprecare privandola dell’ironia e del divertimento.
Da un primo atto in compagnia, quasi corale, dopo l’intervallo la scena inizia a svuotarsi lentamente. Il palco resta più spesso un po’ più vuoto, i colori diventano malinconici, da fine del giorno, l’ora dell’imbrunire.
I temi affrontati continuano, nel cammino verso la conclusione, a confermarsi nel loro peso sociologico e psicologico: la famiglia, i figli e i genitori, l’amore e la noncuranza, l’assenza e la solitudine.
La solitudine di chi vive da solo, e quella di chi, pur vivendo in famiglia è ugualmente solo, allontanato dalla indifferenza, da un gesto mancato, da una parola non detta. A mancare è il contatto, quel toccarsi di mani oltre che di sguardi e di parole. La solitudine che disorienta è quella di chi non si sfiora, non si cerca, non ha il tempo di trovare tempo per l’essere insieme.
Lo spettacolo è inaspettato, spiazzante, sorprende senza urlare, così come illumina le scene senza abbagliare, con una scenografia di porte mai del tutto chiuse, trasparenti come i veli di cui sono fatte. Senza porte chiuse, che qualcuno si decida a bussare per entrare, a guardare un po’ dentro, a chiamare per svegliare chi ancora dorme.
La regista e autrice Lucia Calamaro gioca con il pubblico, creando una famiglia sulla scena, e tirandoci dentro lo spettatore. Silvio (Orlando), Roberto (Nobile), Alice (Redini), Maria Laura (Rondanini), Riccardo (Goretti), lei stessa Lucia (Calamaro), ed è già famiglia; i nomi propri che appartengono ai personaggi come agli attori, avvicinano, creano sintonia, simpatia, coinvolgono. È un dettaglio che unisce, che non fa sentir soli.
La prova degli attori è elevatissima, come il contenuto dell’intero racconto, gli argomenti trattati, il linguaggio utilizzato, l’ironia che pervade l’intero spettacolo, lo spessore attuale che il tema della solitudine acquista, prendendoci per mano. Fa riflettere e compromette ognuno di noi, nella solitudine della memoria affollata di ricordi e di affetti, nella solitudine di un quotidiano evitamento, di un fare convulso che non crea nulla, se non fa ascolto, accoglienza, se non “fa insieme”.
Ultima nota per un superlativo Silvio Orlando, che abbraccia, non solo i suoi figli in scena, ma metaforicamente l’intero pubblico, facendolo entrare nella solitudine di Silvio con una delicatezza e una padronanza della scena e delle emozioni provate, create e indotte, che merita tutti gli applausi instancabili ricevuti.
foto Claudia Pajewski