Creazioni tout court
di Michele Olivieri
I capolavori dei Ballets Russes non hanno mai terminato di ispirare i coreografi nel tempo. In prima italiana il Teatro Ponchielli ha proposto Thierry Malandain e Martin Harriague intenti a dirigere i rigorosi danzatori del Malandain Ballet Biarritz in due capolavori di Igor Stravinsky a cinquant'anni dalla sua scomparsa. Due differenti generazioni per due riscritture moderne che mantengono in comune il medesimo eccellente senso del ritmo.
CREMONA 2 ottobre 2021 – Il risultato della serata è un’arte sognante che racchiude i due storici pezzi presentati dalla raffinata compagnia francese Malandain Ballet Biarritz: L’oiseau de feu e Le Sacre du printemps. Coreografate rispettivamente da Thierry Malandain e Martin Harriague, conservano la magia sacrale delle grandi opere, riuscendo in un’impresa non facile ad acquistare il fascino della contemporaneità. Le creazioni appaiono filtrate sulla riscrittura onirica, e nella sensibilità individuale degli esecutori. Il primo pezzo gode di un umore marcatamente lirico, la ricerca sul movimento segue il ritmo musicale, focalizzando il dizionario neoclassico, con linee pulite e geometriche, nobili e composte, capaci di restituire un’ambientazione solare. Ciò si ritrova costante e appagante dall’inizio alla fine, sia negli assoli sia nelle scene corali. Particolare attenzione meritano le luci (firmate da Francois Menou per l’Uccello di Fuoco e in tandem con Martin Harriague per Le Sacre), aspetto spesso trascurato e che qui risulta fondamentale: nitide ed omogenee nel vestire la scena danno un senso di compiutezza. A tratti lo scintillio appare con nuances dorate di memoria bizantina ma ben pronto ad attraversare il realismo dei giorni nostri, rendendo lo spazio e le figure dei danzatori equilibrate, immerse in atmosfere ornate da simbologie.
La seconda coreografia pone l'accentosu il ciclo della vita, ha un’enfasi marcata sull’aspetto decorativo; l’attenzione ai particolari e la resa materiale degli elementi rappresentati infondono salde radici nella storia del balletto. Martin Harriague nutre la fortunata idea di far iniziare il pezzo a un Igor Stravinskij in scena al pianoforte (strumento da dove fuoriescono tutti i danzatori) concludendolo ancora dal danzatore nei panni del geniale compositore che suona l’ultima nota della sua poderosa partitura. Entrambi i coreografi setacciano nel gesto un personalissimo stile, mietendo l’arte dei giorni nostri con la grande scuola del passato, aggiungendovi un senso plastico e versatile che pone i protagonisti in espressione solenne. Giovani corpi si librano nell’aria con leggerezza e slancio, lanciandosi in una serie di sollevamenti e passi in grado di catturare l’attenzione, in sana competizione con l’antico. Nelle note di sala Thierry Malandain afferma: “L’uccello di fuoco fu creato all’Opéra de Paris il 25 giugno 1910, coreografia di Michel Fokine per Les Ballets Russe” di Serge Diaghilev. 'Il Principe Ivan Tsarévitch vede un giorno un uccello meraviglioso dal piumaggio rosso oro, lo cattura ed in cambio della libertà riesce ad ottenere una delle sue magiche penne...', questo è l’inizio del libretto secondo l’omonima fiaba della tradizione russa. Ma non è il ritratto di questo uccello che andremo a mettere in risalto, nemmeno l’integrale del racconto che realizzerà George Balanchine nel 1949 ma piuttosto la Suite nella versione musicale dallo stesso utilizzata nel 1945. Il nostro approccio intende mettere in risalto ciò che gli uccelli simboleggiano, ciò che li lega al cielo ed alla terra, vedere che la Fenice si decompone per rinascere personifica nella religione cristiana l’immortalità dell’anima e la resurrezione di Cristo. Da qui la tentazione di fare de L’uccello di Fuoco un traghettatore di luce che porta al cuore degli uomini la consolazione e la speranza, ricordando San Francesco d’Assisi, il poeta della natura che conversava con i suoi fratelli 'uccelli' che fossero essi di grande splendore o semplici passerotti.” Mentre in riferimento al Sacre du printemps Nuria López Cortés (assistente alla coreografia, con Françoise Dubuc) scrive: “Il rapporto uomo-natura affascina ed al tempo stesso inquieta Martin Harriague. La rinascita della vita, la sua forza, la lotta per la sopravvivenza: l’opera iconoclasta e geniale di Stravinskij creata per Les Ballets Russes contiene tutto questo e molto altro. Harrigue si impossessa del mito rispettando l’intenzione originale del compositore, illustrata con un rito pagano: ‘è la sensazione oscura ed immensa nel momento in cui la natura rinnova le sue forme, è un’onda scura e profonda di pulsione universale’, precisa Stravinskij in un articolo, che Harriague prende come riferimento. Il martellante ritmo che dona all’opera una forza selvaggia e minacciosa conviene al linguaggio corporale ed esplosivo di Martin Harriague. Dettato dalla musica, rinuncia ad ogni lirismo gestuale, si concentra sul potere espressivo del movimento primitivo e delle figure frattali nelle quali il gruppo si sviluppa, si avvolge, si dispiega, si contrae come un essere umano che risorge e che si apre un percorso prima di esplodere. Harriague prende in prestito il calpestamento degli Augure, che marcavano con il loro passo le pulsazioni della primavera, da Nijinski che aveva osato questa rottura trasgressiva con il linguaggio della danza classica. Le citazioni al balletto originale si fermano qui, ma l’intero lavoro testimonia la volontà di farci affidamento per poter mettere in scena la visione di Stravinskij, sull’espressività della musica particolarmente eclatante nella versione diretta dal Maestro Teodor Currentzis”.
Il pubblico, nei sessantacinque minuti complessivi, contempla le messe in scena, affidandosi alle sensazioni dei creatori che rivelano titoli storici nella storia della danza in modo nuovo, con un imprevedibile carico vigoroso sul mondo a cui si riferiscono, cogliendo l’essenza della composizione stravinskijana. C’è molta danza nei due pezzi – per fortuna – e poche pose statiche che spesso ritroviamo nella disciplina contemporanea di ultima generazione. Qui la rallentata plasticità esiste solo nel tempo che si è fermato su queste opere-maestre che ci riportano inevitabilmente alla felice stagione dei Balletti Russi, all’intuitiva figura di Sergej Diaghilev, al prolifico talento di Mikhail Fokine, all’iconicità di Vaslav Nijinsky, alla straordinaria modernità di Igor Stravinskij e all’inventiva di Léon Bakst. L’atmosfera è chiara, trasparente, impalpabile, quasi a sembrare in assenza di aria. La qualità coltiva la necessaria leggerezza come fosse una piuma che si abbandona a un sospiro di vento. In altre occasioni la mancanza della musica eseguita dal vivo avrebbe generato un senso di non compiuto disturbando il risultato globale, ma in questo caso l’emotività eccelle senza rimpianti (da citare inoltre l’apporto di Jorge Gallardo, scenografo e costumista). Sicuramente, sia Malandain sia Harriague, per celebrare così spiritualmente la semplicità della natura, non devono solo padroneggiare la tecnica coreutica, ma anche porre la propria anima nella loro visione ed estetica.
Di qualità la dinamica del gruppo di danzatori, meritori nelle singole trasversalità (Noé Ballot, Giuditta Bianchetti, Julie Bruneau, Raphaël Canet, Clémence Chevillotte, Mickaël Conte, Jeshua Costa, Frederik Deberdt, Loan Frantz, Irma Hoffren, Hugo Layer, Guillaume Lillo, Claire Lonchampt, Marta Otano Alonso, Alessia Peschiulli, Julen Rodriguez Flores, Alejandro Sánchez Bretones, Ismael Turel Yagüe, Yui Uwaha, Patricia Velazquez, Allegra Vianello, Laurine Viel) che in piena sintonia sviluppano nei propri gesti, rigorosi e lucenti, i frutti di formazione e preparazione (maîtres de ballet Richard Coudray & Giuseppe Chiavaro).