Cinderella dark
di Giuseppe Guggino
Dopo la Cenerentola al chroma-key, nella programmazione del Massimo di Palermo arriva un’altra Cenerentola – o meglio Cinderella, all’anglosassone – stavolta in versione coreutica, allestita da Fabrizio Monteverde su un pastiche di musiche händeliane. Nel complesso non risulta convincente né la declinazione della drammaturgia né il connubio con le musiche. Anche la compagine orchestrale del Massimo, nonostante il valido supporto stilistico di Ignazio Maria Schifani sul podio, mostra una sostanziale estraneità a questo repertorio. Ottimo livello tecnico dei protagonisti, in questa recita tutti appartenenti al Corpo di Ballo del Teatro.
Palermo, 19 maggio 2016 - Ci rechiamo all’ultima replica di questa Cinderella, creata da Fabrizio Monteverde nel 2006 per la compagnia itinerante “Balletto di Roma” su musiche di Händel e approdata in questi giorni al Massimo di Palermo, ne vediamo il primo atto e confessiamo di non averci capito molto. Allora durante l’intervallo leggiamo diligentemente l’argomento dal programma di sala e apprendiamo di aver appena visto una Cenerentola ambientata in una scuola di danza dove la protagonista viene maltrattata dalle altre allieve per via della sua bravura. Però, non avendo colto in tutto il primo atto alcun riferimento visivo alla scuola di danza, né una sbarra né qualsiasi altro rimando minimalista, ci assale il dubbio di aver sbagliato spettacolo; proseguiamo la lettura del programma suddetto, dal qualche cominciamo a cavare qualche rassicurazione sulle nostre abilità oftalmologiche e sulle residue capacita metacognitive: leggiamo di essere in «quel non-luogo, dove vive la derelitta» (praticamente un fondale nero), ove «unici elementi scenici sono otto letti da ospedale psichiatrico» per uno spettacolo nato da «l’esigenza di avere un titolo di richiamo nel cartellone» senza voler «offrire una fiaba secondo i canoni classici» quindi rivedendone la trama e «lasciando alla musica solo il ruolo di puro accompagnamento, di pura colonna sonora, senza in alcun modo renderla protagonista a scapito di una coreografia pensata a priori e poi applicata al suono». E in effetti non può non osservarsi come le possibilità espressive in chiave coreutica di alcuni movimenti tratti dai Concerti grossi di Händel siano piuttosto limitanti, giacché stilisticamente molto diversi dalle air de ballet, all’uopo pensate e generalmente scritte in tempi ternari o composti da Lulli, creatore del genere alla corte del Re Sole; genere per la verità neanche poi tanto frequentato dal compositore sassone scelto da Monteverde, che operò tra l’Italia e Londra, piazze nelle quali il ballo non spopolava tanto quanto in Francia. L’incongruità drammaturgica dell’idea di fondo si riflette anche nello stile di danza che al linguaggio del balletto classico accosta a mo’ di interpunzione la pantomima espressionistica; e non trovandosi per tali momenti una corrispondenza nella “colonna sonora” di Händel, si è costretti a realizzarli nei silenzi tra un numero musicale e l’altro.
Avendo ottenuto nella lettura di intervallo un conforto su quanto non-visto nel non-luogo, ci disponiamo allora con un po’ di rassegnazione al secondo atto, che a dire il vero rivela qualche elemento di maggiore coerenza; si riesce a rintracciare il ballo fra quattro coppie a palazzo del Principe nei primi due tempi del Concerto op. 6 n. 12 HWV 330, nell’Aria centrale avviene l’incontro tra il Principe e Cinderella, poi negli ultimi due movimenti del medesimo concerto si aggiungono le sorellastre e la matrigna; il Principe, perduta Cinderella, danza su “Cara sposa” dal Rinaldo e poi il ricongiungimento avviene sull’Adagio del Concerto op. 6 HWV 319, con il lieto fine coronato da “Placa l’alma” dall’Alessandro.
Nonostante l’ottimo livello tecnico dei protagonisti, in questa recita tutti appartenenti al Corpo di Ballo del Teatro (il primo cast presentava due ballerini ospiti, noti per la partecipazione al programma televisivo Amici di Maria De Filippi, si legge sempre dal programma di sala), ossia Francesca Davoli (Cinderella), Alessandro Cascioli (Principe), Giorgia Leonardi e Alessia Pollini (Sorellastre) e Andrea Mocciardini (come matrigna en-travesti), l’impatto emotivo della serata rimane azzoppato da una drammaturgia non risolta, così come irrisolto rimane lo spettacolo nella sua cifra complessiva tra le scene (metafisiche) di Fabrizio Monteverde e i costumi poco accattivanti di Santi Rinciari.
Né risolleva le cose il tipo di suono che sale su dalla buca: nonostante Ignazio Maria Schifani sia tra gli specialisti più interessanti in circolazione nell’ambito della musica antica, oltre ad essere docente in quell’oasi felice per la musica barocca che è il Conservatorio di Palermo e nonostante egli si spenda non poco a suggerire per tutta la serata il giusto fraseggio, traspare specie tra gli archi una sostanziale estraneità alla precisione e all’articolazione plastica del suono che questo repertorio esigerebbe; sicché, sorvolando sul solo dell’allegro del Concerto op.6 n. 6 che certo non si è coperto di gloria, le cose migliori della serata dal punto di vista musicale si sentono nel Concerto op.6 n.5 (sia l’Adagio che il Presto dislocati in punti diversi del secondo atto) e nelle arie tratte da opere. Carmen Gheggi è molto espressiva in una delle tante tappe della mimesi di “Lascia ch’io pianga” che, già presente nel Trionfo del Tempo e del Disinganno, qui ascoltiamo in una delle ultime riscritture come “Pena tiranna” dall’Amadigi di Gaula; lo è un po’ meno in “Cara sposa”, rimanendo pur sempre plausibile. Così come plausibile è Claudia Munda, impegnata in un’aria dal Riccardo primo oltre che nei trilli di “Placa l’alma” dall’Alessandro in duetto con il luminosissimo timbro di Valentina Vitti, a cui si deve il momento più poetico della serata con “Se pietà di me non senti” dal Giulio Cesare a chiusura del primo atto.
Il pubblico non è parso molto convinto agli applausi finali, ed ancora ignaro del fatto che Fabrizio Monteverde ritornerà con la sua versione di Bolero con “colonna sonora” di Ravel il 4 agosto prossimo al Teatro di Verdura.
foto Rosellina Garbo