Dell’amor borghese
di Stefano Ceccarelli
Il Teatro dell’Opera di Roma riporta ancora in scena una coreografia del maestro Roland Petit: Die Fledermaus di Johann Strauss jr., operetta tradizionale del capodanno viennese (il cui II atto è, contemporaneamente, inscenato in forma di concerto – con qualche modifica – all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia). La Bianchi e Satriano ricevono meritati applausi per una pulita, ottima performance nei due ruoli protagonistici (Bella e Johann); l’onnipresente Garforth, oramai a casa sua sul podio romano, dirige ottimamente le musiche, parzialmente riadattate, del Fledermaus straussiano. L’idea di Petit, il trionfo dell’amore sensuale sulla noia matrimoniale, borghese (che ha, forse, proprio nell’esito positivo – il ritorno sereno alla vita di coppia – la sua ragione di particolarità, il suo essere anti-novecentistico), la sua interpretazione dell’operetta straussiana, piace e coinvolge: e fa riflettere, il che è raro ai giorni d’oggi.
ROMA, 8 gennaio 2017 – Die Fledermaus è opera amatissima a capodanno: la più amata di questa festività! Tanto che sia l’Accademia che il Teatro dell’Opera di Roma scelgono di portarla sulle scene, di presentarne, invero, due assai diverse versioni (il II atto in Accademia; un balletto all’Opera) che hanno ingenerato qualche confusione in cronachisti frettolosi.
Il Teatro dell’Opera di Roma inscena la coreografia che Roland Petit creò sulle musiche del Fledermaus. «La trama generale dell’operetta di Strauss era rispettata, se non proprio alla lettera, almeno nello spirito» (G. Mannoni, dal programma di sala), come accade sempre in Petit, un coreografo eminentemente narratore. La storia è basata su un topos della cultura occidentale: la perdita della fiamma d’amore da parte di un marito annoiato dalle borghesi, perenni attenzioni tributategli da una moglie fedelissima… ma sempre quella. È la noia – tipicamente novecentesca e contemporanea – a favorire la ‘kafkiana’ metamorfosi di Johann in pipistrello, per potersi meglio spostare da un caffè a un altro, da un casino a un’altra festa. La coreografia ha nella resa pantomimica molta della sua difficoltà: si veda un personaggio come Ulrich (amico di Bella – la protagonista – e suo mal celato spasimante, colui che le donerà le forbici in grado di tarpare le ali all’infedele consorte), tutto basato sul recitar danzando.
La vicenda – spalmata in due atti e sette quadri – è abbastanza coerente e gradevole. La partitura (con modifiche e arrangiamenti di D. Gamley) mantiene lo spumeggiante frizzo vespertino e ebbro dell’originale. Merito agli orchestrali romani, in buona forma, e all’onnipresente (quando si tratti di balletti) David Garforth, uno specialista del settore, che danno una resa ottima delle musiche. L’allestimento è quello del Teatro alla Scala di Milano, per la supervisione di un allievo di Petit, Luigi Bonino. Le scene di Jean-Michelle Willmotte, a tratti minimaliste, a tratti più decorate e piene, sortiscono un buon effetto; curati i costumi di Luisa Spinatelli. La coreografia di Petit presenta addirittura qualche coup de théâtre: il sollevamento di Johann, svolazzante per il palco, è certamente quello più d’effetto.
Il corpo di ballo dell’Opera si distingue, come sempre, per precisione e gradevolezza: i valzer più classici, come pure le pantomime più ardite – parti dell’invenzione di Petit – scorrono bene e senza intoppi. L’impegno della Abbagnato sta sortendo i suoi effetti. La Bella della première danseuse romana, Rebecca Bianchi, è completa. Divertente, spiritosa, a tratti volutamente più impacciata, sensuale, carnale, la Bianchi incarna tutte le anime di questa crisalide borghese sbocciata in femme fatale, talmente fatale da ascondersi persino al suo stesso, sprezzante sposo. I pas de deux con Johann scorrono bene: prese, arabesque, foss’anche le più inflazionate figure della pura tradizione coreutica occidentale sono interpretate con consono spirito petitiano, sempre ironico, al limite del disincanto. Ma la parte richiede anche sforzi di gambe, volate di piedi, contaminazioni con generi di danza contemporanea: non è un problema per la flessuosa Bianchi, che si merita tutti gli applausi. Del pari all’altezza lo Johann di Michele Satriano, che ha in una virile leggerezza la firma principale; fa benissimo il pipistrello svolazzante, sa essere sfrontato e seducente, un (redento) tombeur de femmes: mi sarei forse aspettato qualcosa di più nelle movenze espressive (volto e atteggiamento) seguenti la recisione delle ali e l’incoronazione a pantofolaio, buon maritino ubbidiente. Applausi meritatissimi anche per lui. L’Ulrich di Marco Marangelo, spiritoso, agile, clownesco al punto giusto, senza mai risultar stucchevole, è un erotico Leporello di Bella: buona l’intera performance.
Mi piace concludere ribadendo ancora i complimenti all’intero corpo di ballo. Siamo fortunati, in Italia, a Roma, a poter godere di una stagione stabile di danza, una delle arti più antiche e sincere dell’animo umano: non distruggiamo questo inestimabile patrimonio.
foto Yasuko Kageyama