Acqua e fuoco
di Roberta Pedrotti
Serata non memorabile, nonostante le aspettative, per l'omaggio a De Falla della Fura dels Baus
BOLOGNA, 14 febbraio 2017 - Non è un mistero che la fama sia un’arma a doppio taglio: tanto maggiore è l’aspettativa quanto maggiore sarà il rischio di delusione, più peculiare e riconoscibile lo stile, più forte il rischio di una deriva autoreferenziale. Con un linguaggio visivo inconfondibile come pochi e un nome che rimbalza da un capo all’altro del globo, La Fura dels Baus è senz’altro particolarmente esposta a queste trappole, tutte tese in agguato nel momento in cui si affronta quel distillato di spirito iberico, e andaluso in particolare, che è El amor brujo di Manuel De Falla.
Spettacolo nato due anni fa per il primo centenario del composito balletto, ne riprende la prima versione (1915) rimpinguandola con altre pagine tradizionali e dello stesso De Falla, da qui l'estensione del titolo con l'evocazione di fuoco e parola. Se, però, è vero che El amor brujo, anche nella più ampia prima stesura, non “fa serata”, stirata su un letto di Procuste per sfiorare l’ora e mezza perde la sua fulminea, composita, enigmatica essenza e rischia di ridursi a una insipida, quando non indigesta, combinazione di quadri in stili eterogenei: la tradizione classica, il folklore andaluso e gitano, l’anima sefardita dell’autore, il canto, il parlato, la danza, la pantomima.
Allungata la pietanza, La Fura dels Baus, nella persona di Carlus Padrissa, la rimescola con le forti spezie del suo immaginario visivo: acqua – non troppa, giusto per qualche spruzzo sotto i passi di flamenco – e fuoco – più luci e proiezioni che fiamme, ma siamo pur sempre al chiuso in una sala del Settecento – nonché, soprattutto, la classica macchina quadrupede e multiforme che incarna la fascinazione del gruppo catalano per una tecnologia che faccia rima con magia, per la rinascita fantastica di elementi d’archeologia industriale. Un bel giocattolone versatile, come un gigantesco meccano che si fa carro, destriero, ragno e drago, pendolo, bilancere, gru e mille altre cose… come in mille altri spettacoli firmati dalla Fura.
Passioni viscerali, amore, gelosia, tradimento, incantesimi che sorgono e si dissolvono in un battito di ciglio fra il tramonto e l’alba: la carne al fuoco sarebbe molta, anche e soprattutto per la poetica di Padrissa e soci, dal rapporto fra i sessi al mondo dell’istinto e del soprannaturale fino al passaggio fra una civiltà arcaica – contadina o nomade che sia – alla modernità industriale. Tutto però finisce per risolversi in ottantacinque minuti di effetti tipici e un tantino risaputi del repertorio della Fura dels Baus, accompagnati dalla musica di De Falla, danzati non al meglio (ma forse faceva parte della coreografia di Pol Jiménez l’idea di un sincrono non sempre perfetto). Non aiuta la scelta di una cantaora, Esperanza Fernandez, dal carisma non travolgente e dalla tenuta vocale non proprio adamantina: viste le difficoltà crescenti in corso d’opera vien da chiedersi perché non si sia optato per la versione mezzosopranile, meno caratteristica ma di certo più abbordabile.
Meglio funziona la parte strumentale, con l’orchestra del Comunale, la chitarra di Miguel Angel Cortes e il pianoforte di Nicoletta Mezzini, benché alla bacchetta di Felix Krieger manchi il mordente che si auspicherebbe per queste musiche.
L’accartocciarsi su se stessi di epiloghi e ringraziamenti ben poco assertivi in luogo di un vero e proprio finale a effetto contribuisce a un’accoglienza assai poco convinta la sera della prima: applausi per tutti ma senza spellarsi le mani e perder troppo tempo, d’altra parte è ancora presto, è San Valentino, è già carnevale, il clima si sta facendo più mite e invitante.
foto Rocco Casaluci