Una scintilla che parte dal cuore
di Michele Olivieri
Sylvia nella coproduzione del Teatro alla Scala e del Wiener Staatsballet è un presupposto sublime, in cui tutto il corpo di ballo è in totale armonia con se stesso e fluttua congiuntamente alla propria anima, in uno spazio leggendario senza tempo, che rapisce gli spettatori dalla realtà per catapultarli in un altro mondo.
MILANO, 21 dicembre 2019 - Una generosa serata ha aperto la nuova stagione di balletti alla Scala con significativa chiarezza. La danza illusoriamente è imitazione, interpretazione, descrizione di un’azione o di un pensiero ed essa diviene così propriamente arte, perché si pone sullo stesso piano della poesia, e la disciplina classica (nella sua rigorosa purezza accademica) riflette in toto le visioni dei ballerini scaligeri e del loro direttore Frédéric Olivieri, ponendosi sul piano più alto delle arti maggiori. L’aspetto maggiormente piacevole è stato quello di ammirare una coreografia ricca, raffinata, dettagliata e fisica eseguita in maniera ineccepibile.
Sylvia è un balletto molto più moderno di quanto si possa immaginare, malgrado la trama non sia esattamente cosa dei giorni nostri. La freschezza dell’allestimento, la preziosità di scene e costumi (a firma di Luisa Spinatelli), la qualità teatrale della musica di Delibes, la direzione vibrante di Kevin Rhodes, le vivide luci di Jacques Giovanangeli e la cura estremamente elegante tipica della scuola francese di Manuel Legris hanno permesso – a una delle migliori attuali compagnie di danza al mondo – di restituire una folata d’aria fresca e di goderne in un titolo storico (poco rappresentato nel nostro paese) carico di ballabile, guidato da un ruolo femminile forte e da alcune presenze maschili magnificamente concepite.
Affascinante il secondo atto di stampo orientale (che ricorda in qualche modo Le Corsaire, visto in Scala nell’aprile 2018) con la nostra eroina, la ninfa Sylvia, che per poter sfuggire alle grinfie del suo rapitore e tornare dall’amato pastore Aminta escogita di offrire lauti boccali di vino a Orione in attesa che la sbornia lo addormenti, lasciandola così fuggire con Eros. Nicoletta Manni, la prima ballerina, è apparsa perfetta quanto a tecnica – che include in maniera virtuosa e solida quella delle punte –, fiera e pulita nei volteggi, orgogliosa nel portamento, raggiungendo una prestazione deliziosa e garbata, sicuramente ben controllata come è nel suo stile. Aminta è un ruolo curioso che richiede notevole attitudine: fisicamente impegnativo, ma anche potenzialmente fragile. Marco Agostino lo ha portato alla ribalta del Piermarini con abilità e preparazione, virilità e nobiltà d’animo. Dalla sua facilità nelle elevazioni allo sbalzo potente, dall’intreccio dei passi all’accompagnamento delle braccia nelle piroette, dal sempre equilibrato coordinamento braccia-busto-gambe ai giri in aria fino ad arrivare alla sintonia con la partner, ha dimostrato al pubblico la capacità di “sentire” lo stato d’animo all’origine dell’opera, esprimendo non solo il compito di riprodurre e conservare le immagini suggerite dalla musica, ma di rendere questa comprensibile e chiara, permettendo agli spettatori (unitamente agli altri danzatori) di porsi nelle condizioni di partecipare all’intera passionalità della creazione. Gabriele Corrado, prestante e aitante, con lodevole velocità d’azione ha conferito alla creazione e al ruolo di Orione quel tocco di personalità che diventa piacere e bellezza. Mattia Semperboni ha altresì dimostrato, nella sua giovane carriera, di sapersi adoperare nell’arte del balletto con gusto sicuro e acuto senso nel ricercare sfumature sul movimento e sul ritmo (Eros).
Ma è tutto il Corpo di Ballo (da citare inoltre Alessandra Vassallo, Gioacchino Starace, Valerio Lunadei, Agnese Di Clemente, Emanuela Montanari, Eugenio Lepera, Domenico Di Cristo, Gaia Andreanò, Vittoria Valerio, Camilla Cerulli, Benedetta Montefiore) che sa conferire quel tocco forte e morbido al contempo, interpretando la musica nella sua estrema dolcezza, e con grazia si sa adattare alle più sinuose fioriture. La compagine scaligera non si presta a un semplice estetismo corporeo, bensì a un ideale d'espressione che si porge devotamente, insistendo con preziosa fedeltà su ogni figura e ponendo in luce qualsivoglia particolare desiderato dal maestro Manuel Legris, nella sua fedele ripresa coreografica da Louis Mérante, con la drammaturgia e il libretto dello stesso Legris in tandem con Jean-Françoise Vazelle da Jules Barbier e dal barone Jacques de Reinach.
Uno spettacolo che ha lasciato abbondantemente soddisfatti, raggiungendo un risultato assai brillante, che ricompensa così lo sforzo produttivo del Teatro alla Scala fra calorosi, ripetuti consensi e applausi.
foto Brescia Amisano