L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Faust Gounod, Torino, Noseda, Poda

Demoni e visioni

 di Roberta Pedrotti

Charles Gounod

Faust

Abdrazakov, Lungu, Castronovo

Gianandrea Noseda, maestro concertatore e direttore d'orchestra

Stefano Poda, regia, scene, costumi, luci e coreografia

orchestra e coro del Teatro Regio

Torino, Teatro Regio, giugno 2015

2 DVD Unitel Classica 735108

leggi la recensione della recita in teatro: Torino, Faust, 14/06/2015

Visionario è l'aggettivo che più spesso si sente attribuire a Stefano Poda e al suo teatro. Aggettivo bifronte che si attaglia, effettivamente, benissimo allo stile di questo demiurgo scenico, alla ricerca wagneriana di un'opera d'arte totale nella quale plasmare personalmente ogni aspetto visivo. Regista, scenografo, costumista, light-designer e coreografo, Poda punta a identificare drammaturgia con estetica, fino a una prevalenza strutturale, e – si direbbe – programmatica, della forma sul contenuto. Forse proprio per questo il Faust di Gounod sembra essergli una delle opere più congeniali, coniugando la suggestione di uno dei soggetti più profondi ed enigmatici mai concepiti dall'uomo e la liricizzazione levigata e allettante di un trattamento librettistico e musicale alieno dalle ambizioni filosofiche di un Boito o un Berlioz (il primo con propositi di assoluta fedeltà a Goethe, il secondo fieramente anarchico rispetto alla fonte). Così Poda sintetizza il tutto sulla superficie di una visione e sigla uno dei suoi spettacoli più riusciti, ma anche dei più emblematici, nel bene e nel male, in cui l'iterazione di stilemi tipici è portata all'estremo con coerenza, ma anche ai limiti del manierismo fine a se stesso. La maniera, insomma, qui può funzionare, ma l'abuso (come l'abuso nell'accentramento dei ruoli mai osato a tal punto nemmeno da De Ana o Pizzi) è dietro l'angolo e si avverte nell'ostinata, ossessiva gestualità del coro e di ogni momento coreografico. Quegli scatti minuti rammentano quelli ispirati da Méphistophélès nel Faust newyorkese con la regia di McAnuff [leggi la recensione], ma lì l'epilessia seguente a “Le veau d'or” aveva altro sviluppo coreografico e drammaturgico, altra significativa circoscrizione. Come nell'anello che domina la scena e nel continuo moto concentrico alchemico pensato da Poda, così pare che un eterno ritorno dell'eguale sia la cifra di questo spettacolo, come un incubo, una visione. Un'immagine allucinata che si ripete senza sosta nel succedersi di simboli. Esserne persuasi o meno, ipnotizzati, sedotti o stuccati concerne qui come non mai all'esclusiva sensibilità dell'osservatore.

L'eleganza in nulla sdolcinata di un Noseda dalla bacchetta come sempre sottile e incalzante, peraltro, aiuta non poco a sostenere l'atmosfera sospesa dello spettacolo, assecondandola senza rischiare di cedere passivamente fino a sprofondare in un limbo estetizzante.

E quando sulla scena si muove un protagonista – ché a dispetto del titolo originale e della centralità di Marguerite postulata in area tedesca, resta il demonio il motore dell'opera intera – come Ildar Abdrazakov, allora è gioco facile catturare anche l'attenzione dei più perplessi. Il carisma del basso russo fa la differenza e la sua presenza da sola, perfettamente inserita nella visione (in tutti i sensi) di Poda, le conferisce comunque, senza tradirla, una tridimensionalità, una fisicità, una consistenza drammaturgica. Il vigore vocale, il colore nobilmente brunito gli consentono d'inserirsi nella tradizione dei grandi bassi storici, l'eleganza del porgere, la sensibilità moderna, fors'anche le esperienze rossiniane d'inizio carriera (evidentemente utili alla sua formazione d'artista), mettono in luce l'intelligenza di un interprete contemporaneo teatralmente e stilisticamente ben consapevole.

Sulle solide spalle di Abdrazakov questo Faust può andare tranquillamente in porto, contando anche sulla prova convincente di Charles Castronovo e Irina Lungu. Il primo, timbro di buona qualità quand'anche talora un po' teso, porta in dote a Faust una convincente incarnazione scenica e un fraseggio sensibilissimo alla ricerca di colori e dinamiche. La seconda, voce schiettamente lirica pur con propensione all'agilità, sottrae Marguerite ai bamboleggiamenti dei soprani di coloratura liberty tutti concentrati sullo scintillìo dei bijoux: il timbro e il temperamento giovano a valorizzare la suggestione della chanson del Roi de Thule e di “Il ne revient pas”, sicché il personaggio acquista in maturità senza perdere in freschezza e dolcezza.

Vasilij Ladjuk è un baritono chiaro che fatica un po' a legare con eleganza la sua sortita “Ô sainte medaille… Avant de quitter ces lieux”, emergendo maggiormente del duello e nella scena della morte. Privata del suo secondo assolo (“Versez vos changrins”, nel quarto atto) Ketevan Kemoklidze incarna Siebel con totale immedesimazione, anche se la tessitura alta per lei la espone a estremi acuti un po' troppo duri.

Completano il cast Samantha Korbey (Marthe) e Paolo Maria Orecchia (Wagner), ben inseriti nello spettacolo, come l'orchestra e il coro del Regio, che confermano il loro elevato standard qualitativo.

Ben dettagliata la lista tracce nel booklet, le note di Mark Pappenheim sono in inglese tedesco e francese, ma non contengono notizie irrinunciabili per i connazionali non poliglotti, che esulteranno, viceversa, per la presenza (non scontata benché si tratti della produzione di un teatro italiano) dei sottotitoli anche nella lingua di Dante, oltre che nell'originale francese, in inglese, tedesco, spagnolo, cinese, coreano e giapponese.


 

 

 
 
 

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