La notte delle congiure e dei tradimenti
di Roberta Pedrotti
J. A. Hasse
Artaserse
(versione di Venezia del 1730 - revisione di Marco Beghelli)
Zorzi Giustiniani, Schiavo, Prina, Fagioli, Bove, Giovannini
Corrado Rovaris, direttore
Gabriele Lavia, regista
Orchestra Internazionale d'Italia
Martina Franca, Festival della Valle d'Itria, luglio 2012
2 DVD Dynamic, 37715, 2016
Un colpo di stato. Due amici, sentimentalmente legati l'uno alla sorella dell'altro, figli rispettivamente del re ucciso e del ministro traditore. Un clima cupo, notturno, fatto di segreti e sospetti, in cui cadono teste (anche quella dell'altro principe, accusato di parricidio), si tessono inganni, si svelano trame, si ordiscono attentati fino allo scioglimento che, come un'aurora liberatrice, preserva l'amicizia, ricongiunge le coppie, rivela il colpevole perché il nuovo re possa aprire il regno con un atto di clemenza, spezzando la catena degli odi e confortando il sodale lacerato fra amor paterno, fedeltà al trono e all'amico.
Quando il libretto porta la firma di Pietro Metastasio anche i topoi più comuni si sviluppano e concatenano con un'intelligenza fuori dal comune sia dal punto di vista della teatralità, sia da quello del contenuto, dell'analisi psicologica, del pensiero politico. Quanto risulta attuale ancor oggi questo gioco di potere, lealtà, affetti, responsabilità? Seppure questa in prima versione dell'Artaserse Hasse si sia avvalso di un testo rimaneggiato – con il consenso dell'autore – da Giovanni Boldini e (forse) Domenico Lalli, il valore del claustrofobico dramma metastasiano resta intatto.
Lo spettacolo, con la regia di Gabriele Lavia, le scene di Alessandro Camera e i costumi di Andrea Viotti, sembra partire con il piede giusto, disegnando nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca una reggia aspra, spoglia, rugginosa, labirintica. Gli uomini, infidi o leali, vestono tutti divise da alti ufficiali, ci rendono l'immagine di un luogo di potere popolato da ombre simili e, a prima vista, imperscrutabili; il solo principe Artaserse, colto nella notte dalla notizia della morte del padre, appare in vestaglia, a torso nudo, impreparato e schiacciato dagli eventi. Da questi presupposti, tuttavia, la messa in scena procede ordinata e diligente senza spiccare il volo. L'attenzione sembra rivolta a sobrie indicazioni attoriali più che a un disegno drammaturgico di ampio respiro e sono gli interpreti, per lo più, a conferire mordente, in particolare Sonia Prina, nei panni del machiavellico cospiratore Artabano, in cui la spregiudicata ambizione politica si mescola al profondo amore per il figlio, che sognerebbe vedere sul trono ma al quale, riluttante, non esiterebbe nemmeno a imporre il suo volere o ad addossare, per calcolo, colpe infamanti. Nondimeno Franco Fagioli incarna già solo nella postura tormentata, in un torcimento fisico che non giunge a essere caricaturale, lo strazio del giovane Arbace, al pari di Anicio Zorzi Giustiniani, che fa superare gradualmente al suo Artaserse il senso di oppressione e inadeguatezza all'improvviso onore regio tragicamente assunto, fino a presentarsi, dopo un esordio quasi nevrotico, come giovane re padrone del suo ruolo. Il contegno delle due nobili dame e il fare insidioso del complice Megabise completano più che degnamente il quadro.
La musica di Hasse possiede, peraltro, una fisicità tale, una plasticità d'accenti e un'immediatezza melodica che l'interprete accorto difficilmente mancherà di restituire con la dovuta forza teatrale, sia o meno il gesto musicale esplicitato nell'azione. Si pensi anche solo a come Arbace scioglie, per un istante, il recitativo in un brindisi nella tesissima scena finale, con l'avvelenamento sventato in extremis. Basta davvero poco per dare vita, carne e sangue ai versi di questa prima versione dell'opera di Hasse di cui non è pervenuto alcun autografo, ma solo fonti manoscritte collazionate da Marco Beghelli. Corrado Rovaris, non un esclusivo cultore del barocco, è un musicista duttile e preparatissimo, cosciente e competente, in grado di concertare al cembalo e di dominare con cura affettuosa un complesso parimenti non specialistico come l'Orchestra Internazionale d'Italia, da cui trae morbidi ed espressivi impasti equilibrando assai bene le sonorità (e se talora in registrazione l'orchestra pare un tantino in evidenza, sembra più questione tecnica di ripresa in uno spazio aperto ma non troppo vasto). Il dramma procede con giusto ritmo e il cast, di provata esperienza sei e settecentesca, appare perfettamente affiatato.
Su tutti brillano Artabano e il figlio Arbace, al secolo Sonia Prina e Franco Faggioli nei ruoli che furono creati per il Nicolino, sommo contralto castrato in età non più verde ma ancora in grado di prestare la sua arte a questo controverso ruolo paterno, e per Farinelli. La prima, alle prese con un ruolo scritto per centellinare le energie di un cantante maturo giocando tutte le carte dell'interprete esperto, impone la sua sottile autorità negli ambigui meandri psicologici di Artabano, fraseggia ad arte accompagnando il canto con adeguata mimica e ben studiata gestualità. L'apice è raggiunto con lo straziante finale secondo (che culmina nella celebre "Pallido il sole"), ma non rinuncia alla prassi dell'aria di baule inserendo anche il virtuosismo di “S'impugni la spada” dal Motezuma di Vivaldi nel primo atto, là dove, eccezionalmente, un personaggio di primo piano uscirebbe di scena senza un'aria (pur presente nel libretto originale ma non musicata da Hasse per non affaticare il Nicolino). L'esito, naturalmente, dà ragione alla Prina: l'equilibrio del dramma metastasiano è preservato, né v'è da dubitare che in qualsivoglia ripresa d'epoca con un contralto nel fiore degli anni non sarebbe avvenuto pressappoco lo stesso.
Fagioli rinnova lo stupore della vocalità farinelliana con audacia perfino sfrontata, svettante nell'acuto estremo e pronto ad affondare in abissi baritonali forte di tutto l'armamentario virtuosistico e patetico dell'autentico primo uomo barocco. Il personaggio, angosciato e psicologicamente sfiancato, cresce nel corso della recita, la voce si scioglie man mano che s'innalza la tensione drammatica, le esigenze sterminate del ruolo disegnano un intelligente vocabolario retorico, sicché Fagioli è epigono dell'antico e interprete moderno, cantante attore e non mera pirotecnica.
Terzo castrato del cast originale, Castoro Antonio Castori creò il ruolo Megabise, accolito di Artabano, ora appannaggio di Antonio Giovannini, dalle subdole movenze di ragno, dalla lucente vocalità sopranile, tagliente e insidiosa, levigata quale lama affilata come si conviene al personaggio. L'emissione limpida ed essenziale appare come perfetto contraltare del timbro pastoso, denso di Fagioli, evidentemente attentissimo alla copertura del suono, e dello schioccare asciutto del canto della Prina, cui più si avvicina, nei modi se non nella tessitura, distinguendo eloquentemente i cospiratori dall'innocente Arbace.
Nel ruolo di Mandane, che fu di Francesca Cuzzoni, Maria Grazia Schiavo, in perfetta confidenza con questo repertorio, s'impone al solito con la sua elegantissima, lirica stilizzazione, con l'intelligente duttilità del suo canto, con un'espressività riservata ma non distaccata, anzi, dai tratti particolarmente intensi. L'amica e, infine, cognata Semira, sorella di Arbace, trova in Rosa Bove un'ottima, sensibile interprete a dispetto dell'esiguità della parte, più ancora che per il numero di arie (tre, come Megabise e Artaserse), per la rilevanza drammatica.
Se, pertanto, i brani solistici vedono il tenore eponimo lontano da un ruolo di preminenza negli equilibri complessivi della partitura, il personaggio del giovane principe attorno al quale turbinano complotti non è privo d'interesse ed emerge ben delineato da Anicio Zorzi Giustiniani, Artaserse assolutamente efficace per timbro, articolazione musicale e azione.
Efficiente la regia video di Raffaele Agrusta e Cesare Orlando; preziose le note di Marco Beghelli, che giustamente pone l'accento sulla prospettiva distorta di noi moderni, conoscitori soprattutto di Haendel, rispetto alla centralità preponderante nei circuiti europei dell'epoca di autori come Hasse, Leo, Vinci o Porpora, tutti degni di una più viva attenzione.
Sottotitoli in ben sei lingue, fra europee e asiatiche, ma ancora una volta lista delle tracce un po' troppo spartana, secondo l'uso della Dynamic: forse il catalogo ricercato della casa genovese meriterebbe qualcosa in più della sbrigativa annotazione, per ogni sequenza, del solo titolo e interprete dell'aria principale.