Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare Cleopatra
di Roberta Pedrotti
G. F. Händel
Giulio Cesare in Egitto
Scholl, Bartoli, Jarrousky, von Otter, Dumaux, Kowalski, Drole, Kalman
Il giardino armonic
direttore Giovanni Antonini
regia Moshe Leiser e Patrice Caurier
Salisburgo, maggio 2012
2DVD DECCA, 074 3856 DH2, 2016
Una contesa dinastica causa instabilità politica in un ricchissimo e cruciale paese mediorientale, il leader di una grande potenza occidentale si reca sul posto per sciogliere crisi interne (anche lui ha i suoi oppositori da fronteggiare) e internazionali nella speranza di trarne il maggior vantaggio. Nel frattempo si concede quella che sembra una distrazione erotica di poco conto e che invece si rivelerà fonte di fondamentali conseguenze politiche.
Non è forse quel che avviene nel Giulio Cesare di Händel? Non è forse un soggetto attualissimo? Ma se dovessimo limitarci a registrare l'epoca in cui scene e costumi collocano la vicenda ridurremmo il teatro musicale a ben poca cosa, faremmo un vero torto a quello straordinario drammaturgo che fu Händel. Sì, il suo Giulio Cesare non è un rigoroso trattato di storiografia e sviluppa temi – sesso e potere, ambizione e vendetta, vizio e virtù – senza tempo, ma non può bastare questa considerazione per concedere o negare un fantomatico bollino di ammissibilità a questa o quella messa in scena. Quel che conta è il come l'opera prende forma teatrale, conta la capacità - di cui parla Aristotele nella Poetica - di sapersi “servire bene” dei miti: svilupparne l'interesse senza tradirli. Ed ecco che nel concreto Moshe Leiser e Patrice Caurier non tradiscono e non mutano nulla, ma creano un grande spettacolo: non una nota di Händel viene toccata, l'opera si presenta in forma integrale (e già qui dovremmo esultare) in un'azione teatrale che non conosce cali di tensione, ma che esplora con cura minuziosa tutti i rapporti psicologici e le ragioni intime di ogni aria e recitativo, non senza rinunciare a qualche tratto ironico e surreale. E qui, piaccia o meno, non ci si può non inchinare alla maestria di Leiser e Caurier, che non fanno leva semplicemente su qualche facile ammiccamento e non cadono nella trappola dello stereotipo, pur pigiando il pedale del grottesco senza timore di eccedere, padroneggiandolo da virtuosi. Cleopatra cita esplicitamente, in “V'adoro, pupille”, il Dottor Stranamore di Kubrick, ma allude anche, in una delle sue camaleontiche mise, a Uma Thurman in Pulp Fiction (e quanto Tarantino riapparirà qua e là!), ma non è il gioco delle citazioni cinematografiche il fine dello spettacolo, e anche l'eccesso è funzionale a una poetica ben familiare fin dai tempi di Elisabetta I al pubblico londinese per cui scriveva Händel, è parte dell'estetica barocca, diviene un ulteriore potente mezzo espressivo. Gli uomini di Cesare che, nella sinfonia, percorrono la scena in mimetica, armati di fucili e mitra e improvvisamente, ma con perfetta naturalezza, spiccano leggiadri passi di danza non sviliscono la drammaticità della situazione, denunciandone bensì l'assurdità, la ferocia dissimulata, nonché l'incoscienza dei potenti pronti a sottomettere vite umane all'interesse. Tutto senza sovraccaricare il testo e tramutarlo in un proclama politico fine a se stesso, bensì restituendo alla sensibilità moderna la vitalità del teatro musicale barocco, la sua peculiare amplificazione ed elaborazione del reale.
Al contrario Leiser e Caurier equilibrano alla perfezione tragedia e commedia, per esempio nell'oscurità in cui Cleopatra intona "Piangerò la sorte mia" legata e incappucciata, o nella delicatezza con cui sanno ritrarre una sconcertata Cornelia che cerca conforto nell'alcol (“Nel tuo seno, amico sasso”) dopo aver visto la testa barbaramente mozzata del marito. Proprio l'altera matrona romana offre qui ad Anne Sofie von Otter la possibilità di realizzare un piccolo-grande capolavoro artistico: più bella che mai nei panni della donna di classe il cui fascino non teme l'assalto di qualche ruga, è parimenti elegantissima nel canto e delinea a meraviglia il ritratto complesso di una lady dal severissimo autocontrollo, tutta votata alla dignità della sua posizione, messa a rischio dall'omicidio del marito, la cui vendetta diviene un'ossessione alla quale è pronta a sacrificare il suo stesso figlio. Raramente si è visto il rapporto fra Cornelia e Sesto così ben sviluppato, e bisogna dare atto anche a Philippe Jaroussky di una prova teatralmente, oltre che musicalmente, superlativa nei panni dell'adolescente castrato da una famiglia dell'alta società, formale e iperprotettiva, con due genitori non più giovanissimi, smanioso di dimostrarsi uomo e di meritarsi una dimostrazione d'affetto dalla madre, un riconoscimento della propria maturità e autonomia. Ma Cornelia, pur di veder morto Tolomeo, arriva ad allacciare amorevolmente una cintura da kamikaze al figlio che cerca invano i suoi sguardi. Eppure si vogliono bene, si comprende da mille dettagli, mentre mille dettagli li allontanano nelle rispettive nevrosi.
In un cast che schiera tre diverse generazioni d'interpreti a rispecchiare i rapporti anagrafici fra i personaggi, figura splendidamente anche il quasi coetaneo e connazionale di Jaroussky Chistophe Dumaux, specialista della parte di Tolomeo di cui sa incarnare tutta la lascivia, la capricciosa tirannide, la sfrontata amoralità, la violenza ferina (in “L'empio, sleale indegno” sfoga la sua furia contro la statua di Cesare al punto da strapparne vere viscere, in “Domerò la tua fierezza” umilia la sorella fino ad abusare di lei) senza tuttavia mai scivolare nella macchietta o varcare il confine fra il turbamento e il disgusto. Fra questi giovani fa capolino una vecchia gloria della storia di controtenori e contraltisti: Jochen Kowalski, con il suo fisico imponente, è una Nirena irresistibile, cui basta un'alzata di sopracciglio o un mezzo sorriso per far rivivere tutta la schiera di intriganti nutrici en travesti dell'opera barocca – dall'Incoronazione di Poppea in poi – anch'egli con un gusto sopraffino, prendendosi sul serio quel tanto che basta a trovare il perfetto, realistico equilibrio fra dramma e commedia. Naturalmente nemmeno i personaggi di Curio (Peter Kalman) e Achilla (Ruben Drole) sono trascurati: più che semplici spalle dei rispettivi leader, sanno mescolare, in dosi diverse, disciplina militare, fedeltà, cameratismo, timidezza, estroversione, orgoglio.
Non è da meno, anzi, la coppia trionfante: Cleopatra e Giulio Cesare. Questi è Andreas Scholl, esponente della generazione di mezzo tra Kowalski e Jaroussky/Dumaux, che si presenta come un uomo nel fiore della maturità, un politico sicuro di sé, attento alla propria immagine, ma che non disdegna qualche esotica avventura fra le lenzuola. Impagabile è la nonchalance con cui si riveste, dopo l'agognato primo incontro con Cleopatra, intonando “Al lampo dell'armi”, più che certo della superiorità militare delle sue forze rispetto ai sicari assoldati da Tolomeo. La sua flemma di politico consumato si palesa nel sorriso che sfoggia quando, liquidati i tentativi d'avvelenamento da parte del giovane re egiziano, gl'impone la firma di un proficuo accordo petrolifero dando a ogni nota, a ogni cadenza e variazione di “Va tacito e nascosto” una precisa, ficcante intenzione. D'altro canto, quel misto d'arroganza, sani principi, libertinismo e forza che caratterizza questo “esportatore di democrazia” (o di pax romana) trova intrigante corrispettivo sonoro in alcuni frammenti di recitativo detti quasi con voce maschile naturale, tratto d'ulteriore ambiguità psicologica rispetto al registro contraltile della parte.
Resta per ultima, ma non ultima, Cecilia Bartoli, ché a lei si deve anche il merito d'aver progettato questo magnifico spettacolo in qualità di direttore artistico del Festival salisburghese di Pentecoste. La sua esperienza in questo ruolo non poteva avere debutto più felice e la cantante romana non poteva offrire prova migliore delle proprie qualità. Se si dovesse suggerire una performance, una sola per presentare Cecilia Bartoli, sarebbe difficile non proporre questa Cleopatra, cui si vota con una disinvoltura anche fisica disarmante. Il timbro è inconfondibile, come inconfondibile è l'emissione, ma l'unicità rende tale la primadonna, non la limita nell'icona di se stessa, tant'è vero che non appare mai sopra le righe o nevrotica nella vocalizzazione, viceversa finissima. È, viceversa, ispirata, nobile e sincera nei passi patetici, brillante, piccante, sfrontata là dove provocazione, seduzione, trionfo lo esigano (tutto da gustare il suo contare i guadagni petroliferi a suo di fioriture in "Da tempeste il legno infranto"). Anche nel suo caso non v'è nota che non abbia un preciso senso teatrale, non solo quando è lei a intonarla, ma anche quando si tratta dei colleghi sulla scena o degli strumentisti del Giardino Armonico. Completamente immersa nel mondo di questo dramma musicale, straordinariamente persuasiva, è parte integrante d'un meccanismo perfetto, di uno spettacolo che è un vero modello d'opera d'arte totale secondo l'estetica barocca.
Non può, dunque, esser da meno Giovanni Antonini, che pare galvanizzato dalla situazione e regala una delle concertazioni più avvincenti che ci sia capitato di ascoltare da lui.
Dobbiamo trovare un difetto in questo DVD registrato con tutti i crismi tecnici della Decca, corredato da un bel libretto che presenta, come d'abitudine, una dettagliatissima lista delle tracce? Sarà allora l'assenza dei sottotitoli in italiano: è vero che tutti i cantanti hanno dizione chiara e piena, articolata consapevolezza del senso ultimo dei versi, ma si tratta pur sempre della lingua dell'opera e permettere a chi lo desiderasse di sbirciare il testo cantato potrebbe non essere una cattiva idea, anche considerato che un video come questo è quanto di più consigliabile per chi volesse avvicinarsi per la prima volta al teatro musicale barocco. Sono quattro ore, è vero, ma scivolano via in un istante e si vorrebbe ricominciare da capo.