L'anima nuda
di Roberta Pedrotti
C.M. von Weber
Euryanthe
Wagner, Reinhardt, Kronthaler, Forster-Williams
direttore Constantin Trinks
regista Christof Loy
ORF Radio-Symphonieorchester Wien
Arnold Schönberg Choir diretto da Erwin Ortner
Vienna, Theater an der Wien, 12 e 15 dicembre 2018
DVD Naxos, 2.110656, 2020
Il soprano ama il tenore. Il tenore ama il soprano. Il baritono insinua il germe della gelosia, si propone per sedurre la bella e provarne l'infedeltà. Il mezzosoprano, per amore del tenore, decide a sua volta di guastarne la felicità, conquista e tradisce la fiducia del soprano, si allea e (quasi) si sposa con il baritono. Una coppia virtuosa e una perversa, una donna angelicata e una demoniaca, sentimenti messi alla prova, segreti e giuramenti, calunnie, amori intrecciati. C'è un po' di Così fan tutte e un po' di Lohengrin in Euryanthe, con un pizzico di Otello e di altri topoi (o cliché) frequentatissimi dal melodramma, conditi dalla librettista Helmina von Chézy con tutte le spezie del romanticismo alla moda: ambiente medievale, elementi fiabeschi (un serpente minaccioso alla maniera della Zauberflöte), o macabro gotici (quell'andare e venire dalla tomba della povera sorella del tenore...). Non c'è, però, spezia che tenga a mascherare i difetti di una pietanza, e decisamente la drammaturgia di Euryanthe è una notevole zavorra per la partitura di Carl Maria von Weber, di cui non si discutono il valore, la maestria di scrittura, la felicità d'invenzione.
L'importante, allora, è riuscire a crederci. Per convincere il pubblico, per far funzionare lo spettacolo, è necessario che per primo chi lo crea ci creda. Per fortuna, è questo il caso di Christof Loy, come dimostrano le sue affermazioni nel fascicolo d'accompagnamento al DVD - da leggere rigorosamente dopo la visione, ché devono servire da approfondimento, confronte e riflessione, non da guida, devono confermare i fatti e non influenzarne la percezione. Il regista tedesco, come sempre, non manca di fare precisi riferimenti alla musica e al suo valore nella costruzione del dramma e dei personaggi, la mette in rapporto al testo, nel quale riconosce un proprio linguaggio da decifrare, come una creatura irregolare ed enigmatica di cui svelare il fascino.
Via, dunque, tutti le spezie romanticheggianti, il medioevo leggendario, i mostri, le rupi e i sepolcri. Tutti elementi di gran moda duecento anni fa, ma percepiti diversamente da occhi moderni e, di conseguenza, da veicoli di significati, emozioni e suggestioni, facilmente derubricabili ad arredo d'epoca, innocuo color locale. Loy cambia prospettiva, vede in quell'apparato immaginario la rappresentazione di desideri nascosti, ossessioni e angosce, di un dramma psicologico esplicitato nella musica e nell'enigmatico libretto, rappresentabile per la sensibilità moderna nell'essenzialità di un gioco a quattro. Allora è tutto recitazione, l'ambiente è unico, un corridoio d'un bianco abbagliante illuminato con sapienza cangiante da Rehinard Traub, fra detto e non detto, desiderio e repressione al limite della follia, Euryanthe, Eglantine, Adolar e Lysiart si osservano, si inseguono, si interrogano, si sfuggono, si mentono l'un l'altro, mentono a se stessi, cercano una verità.
Emblematico è il terzo atto, lo sguardo allucinato di Euryanthe che dice di vedere il serpente mentre proprio dietro di lei da una porta appare la sagoma della folle e sensuale Englantine, subito raggiunta da un Adolar sempre più sconvolto. Non sappiamo cosa succede dietro quella porta, ma sappiamo che la coppia si ricomporrà e la donna demoniaca precipiterà definitivamente nel delirio. Di lì a poco Lysiart definirà Englantine proprio "un serpente": Loy non inventa nulla, scava alla ricerca di significati nascosti semplicemente fra le parole e le note.
Emblematico dello scavo psicologico è anche l'inizio del secondo atto. Lysiart canta tutta la sua scena completamente nudo. Ma è una nudità che non si ostenta, non ammicca a scandali e sguardi morbosi, non è fine a se stessa. È la nudità dell'anima di un malvagio che si rivela fragile, turbato, combattuto, sulla sua pelle scoperta vediamo i brividi, sentiamo la vulnerabilità. Andrew Foster Williams ci restituisce queste sensazioni con una straordinaria naturalezza, non tradisce mai altro disagio se non quello della lacerazione interiore del suo personaggio, recita, insomma, alla perfezione e canta pure assai bene, con emissione sempre a fuoco e fraseggio articolato. Se, per contro, qualche acuto di Englantine costringe Theresa Kronthaler a suoni taglienti, ciò è perfettamente in linea con il suo personaggio serpentino, doppio, sensuale, mentalmente disturbato, una vittima, in fondo, anche lei, per la quale non si può non provare una punta di compassione. Del resto, anche qui ci troviamo di fronte a un'interpretazione di tutto rispetto, sia per l'impegno teatrale sia per l'incisività espressiva e l'energia profusa nel canto.
A Jacquelyn Wagner spetta il compito non semplice di dare un carattere a una figura eponima che potrebbe facilmente rischiare - al pari di Elsa von Brabant - di diventare una candida pupattola senz'anima. Canta con morbidezza, accenti trepidi quando opportuno, voce limpida, ma non manca di nobiltà e determinazione, non sfugge ai turbamenti e alle inquietudini che lo spettacolo di Loy mette in evidenza. Un po' più palliduccio potrebbe risultare l'Adolar del tenore Norman Reinhardt, ma alla fine il suo ritratto di uomo a tratti paralizzato da angosce segrete, inadeguato, insicuro innamorato della moglie, turbato oggetto dell'ossessione erotica di Englantine, emerge in maniera convincente e completa gli equilibri del quartetto protagonista, costretto a un labirinto psicologico nell'unico spazio del corridoio bianco.
Qualche taglio alla partitura sopprime le parti minime di Berthe e Rudolf, sicché l'unica altra voce solista è quella del Re Ludwig (bilanciato dalla presenza muta della Duchessa di Bordeaux, sì da creare un'altra coppia esterna) di Stefan Cerny, così pacata da costituire davvero un'altra dimensione rispetto alle tensioni interiori delle due coppie. In questo contrasto anche sonoro ben s'inserisce l'Arnold Schönberg Choir, che con una leggerezza quasi diafana conferisce un'aria straniante alle pagine idilliache che gli sono riservate.
D'altra parte, il lavoro del concertatore Constantin Trinks è davvero encomiabile nel gioco timbrico sempre sul filo del rasoio di piccole sfumature, trasparenze, equilibri strumentali ben definiti. La chiarezza del fraseggio rivela la consapevolezza stilistica di un'opera tedesca che costruisce la propria identità sul lascito mozartiano, all'interno di un quadro internazionale cui non si può rimanere indifferenti (Euryanthe debutta al momento della Rossinimania viennese, e se pure rappresenta anche un moto di reazione, le voci principali sono le stesse che frequentano assicuramente Otello, L'italiana in Algeri, La gazza ladra, o che partecipano alla prima assoluta della Nona di Beethoven).
Un'ulteriore prova dello spazio che il Theater an der Wien si è saputo ritagliare costruendo la propria identità sul repertorio meno battuto e su interpretazioni non scontate, anche coraggiose, a riprova che l'opera vive di mille vite possibili.