Classicità e contemporaneità allo specchio
di Stefano Ceccarelli
Secondo appuntamento della serie di concerti “Specchi del Tempo” promossa dal Teatro dell’Opera di Roma, il concerto di domenica ha abbracciato il classicismo ‘romantico’ di Beethoven, la modernità di Prokof’ev e la contemporaneità di Xenakis. A dirigerlo Alejo Pérez, già noto al pubblico romano per un’edizione de Il naso (2013) di Dmitrij Šostakovič: si trova a Roma soprattutto per l’allestimento venturo della rossiniana Cenerentola. Al pianoforte, per il Concerto n. 3 di Beethoven, siede François-Frédéric Guy. Il concerto mostra una buona qualità d’esecuzione: Pérez ha costruito un buon feeling con gli orchestrali del maggior teatro romano, benché permanga un’orchestra naturalmente portata e specializzata per il repertorio operistico. Certamente la Sinfonia n. 5 di Prokof’ev e Metastaseis di Xenakis risultano i pezzi meglio eseguiti. Guy, dal canto suo, suona abbastanza bene il concerto beethoveniano. Piacevole serata di musica.
ROMA, 10 gennaio 2016 – L’idea della serie di concerti “Specchi del tempo”, proposti dal Teatro dell’Opera di Roma, è quella di racchiudere in un unico concerto lo spirito di diverse epoche. Nel presente vediamo specchiarsi – appunto – il classicismo ‘romantico’ del Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 di Ludwig van Beethoven, il moderno classicismo della Quinta sinfonia di Sergej Prokof’ev e il singolare gusto avanguardistico di Metastaseis di Iannis Xenakis. Sul podio l’argentino Alejo Pérez, che il pubblico romano ricorderà per un’edizione de Il naso (2013) di Dmitrij Šostakovič. Pérez si trova a Roma anche e soprattutto perché sarà il direttore della prossima Cenerentola rossiniana. Il concerto inizia con l’esecuzione del Concerto n. 3 di Beethoven. Alla tastiera François-Frédéric Guy, che trova proprio in Beethoven l’autore prediletto e amato, studiato e inciso. L’Allegro con brio (I) inizia con gli accenti perentori dell’orchestra: l’esecuzione è buona, ma non perfetta. L’entrata di Guy è energica, quasi prepotente. Parco l’uso della pedaliera: suono asciutto, secco. Tutta l’esposizione si caratterizza per buon timing fra direttore e pianista, che però risulta troppo pesante in taluni passaggi, dove il suono, reso a tratti elefantiaco, è anche troppo uniformato, perdendo in colore e volumetrie. Molto belli i successivi passaggi verticali della tastiera, con i trilli in filato, dove Guy ci mostra più tocco e sensibilità. La riesposizione e la cadenza sono complessivamente migliori. Nel Largo (II) Pérez e Guy riescono a creare una buonissima atmosfera vaporosa: l’esecuzione è più naturale, soffice, soffusa, appoggiantesi su una pasta orchestrale romanticamente lacunosa. Il Rondò-Allegro (III) vede Guy sciogliersi e lanciarsi più spedito nell’ardito virtuosismo (peccato permanga qualche tratto esecutivo troppo marcato e pesante); l’esecuzione è più che buona, con incisivi interventi dell’orchestra e un Pérez più ispirato: molto graziosi i passaggi in cui il pianoforte si sovrappone ai pizzicati degli archi. Sinceri applausi.
Il secondo tempo, veramente impegnativo, comincia con l’esecuzione della singolare partitura dal titolo Metastaseis (1954) di Xenakis. Figura complessa di intellettuale, Xenakis, dopo la fuga dalla Grecia lacerata della guerra civile, entra come disegnatore nello studio del celeberrimo Le Corbusier a Parigi – aveva intrapreso inconclusi studi d’architettura e matematica. Metastaseis riflette quest’attenzione dal dato architettonico, strutturale e coloristico: il caotico incipit, con la sovrapposizione di ogni strumento che suona una parte leggermente diversa dalle altre, creando nuance dissonanti di pregevole effetto, in un glissando di tutta l’orchestra; segue un’ampia sezione in crescendo quasi rossiniano, che accumula tensione con l’ingresso di strumenti differenti. L’orchestra è portata a un notevole cimento: Pérez è bravo a dosare il volume, a eseguire i glissandi, i diminuendo e a guidare soprattutto la compagine degli archi: di fatto a ricondurre tutte le sezioni a un ordine geometrico assoluto. L’esecuzione è piacevolissima e rende onore al talento architettonico di Xenakis.
Il posto del leone lo occupa, certamente, la Quinta (1944) di Prokof’ev, precedente di soli dieci anni a Metastaseis e pur così legata ancora al mondo musicale europeo post-romantico. L’esecuzione è ottima e conferma il buono stato dell’orchestra dell’Opera di Roma, non certo abituata a un repertorio sinfonico di questa monumentalità. Fin dall’Andante,Pérez palesa una consapevole conoscenza della partitura: la sua lettura è squisitamente estetica, più attenta al dato sonoro. Infatti, le calde sonorità dell’inizio della sinfonia invado la sala e ci accolgono nella loro lucentezza, maculata da un ritmo incessante che serpeggia (troppo pesanti, qui, gli ottoni). Gli archi accennano e lasciano in sospeso; grande la potenza di taluni passaggi. Ove in Beethoven non aveva certo brillato, qui Pérez dà il meglio di sé. Nell’Allegro marcato (II) l’orchestra si snoda con eleganza nell’ironia sincopata (alla Šostakovič), giocata con diversi strumenti, differenti timbri, fino a raggiungere vette di tersa serenità (i legni). Sui vapori cangianti degli archi si stagliano le melodie dei legni congiunti; il ritmo si fa sempre più serrato (e qui Pérez, nell’agogica, avrebbe potuto giocare più di fioretto): l’evoluzione dell’Adagio (III) è mastodontica, per tensione e ricchezza d’invenzione. Nell’Allegro giocoso (IV) Pérez è bravo a concludere la sinfonia giocando coll’allure coreuticamente positivo del brano: un ritmo variegato, che non oblia il jazz, sempre sul piede di danza, si fa largo fra i guizzi melodici degli strumenti, dalle sonorità sovente squisitamente classiche. Una tensione ritmica sale spasmodicamente fino a uno pseudo-finale, un raffinato gioco d’attesa, che partorisce una presa di fiato e una conclusione più recisa, più garbata. L’esecuzione è un successo: gli applausi molti e convinti.