L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Stelle e Strisce

 di Stefano Ceccarelli

Uno dei più quotati direttori d’orchestra al mondo, Antonio Pappano, e l’affascinante violinista Gil Shaham sono i protagonisti di Born in the U.S.A., interessante retrospettiva di un quarantennio di musica a stelle e strisce: On the Town: Three dance Episodes (1946) di Leonard Bernstein, il Concerto per violino e orchestra op. 14 (1941)di Samuel Barber e Harmonielehre di John Adams. Il pregio squisitamente intellettuale del concerto è quello di presentare opere sì famose, ma non molto eseguite tradizionalmente in sala da concerto – in cui continua, ancora, a preferirsi il repertorio sei-ottocentesco. Il pregio musicale è che le partiture sono, in sé e per sé, veri capolavori: l’attenta, partecipe e viva direzione di Pappano e la sentita esecuzione di Shaham (del concerto di Barber) hanno reso la serata indimenticabile.

ROMA, 19 gennaio 2016 – La sala Santa Cecilia s’addobba di stelle e strisce. A rendere omaggio alla cultura musicale statunitense del secondo novecento sono un inglese, Sir Antonio Pappano, e un americano di nascita (Illinois), il talentuoso Gil Shaham, anzi, in realtà, americano d’adozione − i genitori, di origini israeliane, tornarono ben presto a Gerusalemme e l’apprendistato di Gil si divise fra Israele e America. S’incomincia con una vera star a stelle e strisce, Leonard Bernstein; con una sua prova giovanile, la suite orchestrale Three Dance Episodes from On the Town, ricavata – come rammenta il titolo – dal musical di Broadway On the Town, il cui plot è basato sulla trama di un balletto che Bernstein musicò per il Metropolitan Opera nel 1944. On the Town approderà anche sul grande schermo nel 1949. Siamo al giro di boa della Seconda Guerra Mondiale: il mondo, e l’America, sono saturi degli orrori bellici. On the Town è una comica fantasia a sfondo amoroso fra tre marinai e tre ragazze. L’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia trova il sound perfetto e Pappano il timing ideale: ne emerge un Bernstein squisito, limpido, ironico come lui sa essere. Il primo movimento, The Great Lover, rappresenta in pieno quel gusto di «“sincretismo” musicale che ha portato a fondere la tradizione del sinfonismo tardoromantico (europeo) con alcune tradizioni tipicamente americane, dal musical, al jazz, dal pop alla minimal music» (G. Mattietti, dal programma di sala). Pappano è bravissimo a farne emergere il carattere machista e virilmente sfrontato; come, invece, nel secondo (Lonely Town) è assai abile a evidenziare il carattere elegiaco, onirico, fantasioso, «l’eloquio sensuale di un blues e un’espressione malinconica che richiama Aaron Copland» (sempre Mattietti). In Times Square: 1944 torniamo all’ironia scanzonata del primo tempo: Pappano coglie un certo sentimento eroico/epico tipicamente giovanile, di una gioventù in cui si incarnava il sogno americano. I caldi applausi preparano l’entrata di Gil Shaham, pronto per farci sognare col classico Concerto per violino e orchestra op. 14 di Samuel Barber. Siamo nel febbraio del 1941: la Germania nazista sta mostrando il suo lato peggiore al mondo intero, mentre la Gran Bretagna si difende dai suoi attacchi bardandosi a falange e divenendo agli occhi dell’Occidente il baluardo democratico/liberale dell’Europa. In questo clima d’estrema tensione, Barber regala al mondo un concerto classico nell’impianto e dalle sonorità dolci, idilliache, ai limiti dell’evasione in un mondo irreale – completa evasione fermata solo dai rigurgiti tensivi che costellano la partitura. Shaham è bravissimo nel cogliere subito la colorazione perfetta, nell’armonizzarsi al meglio con l’orchestra, che suona divinamente. Nell’Allegro il timbro argentino del suo Stradivari Contessa di Polignac, tenuto opportunamente a un volume contenuto e omogeneo, disegna con grande naturalezza la stupenda melodia dal gusto dolcemente agreste; e Shaham si guarda intorno, nei momenti in cui posa l’archetto, sorridendo agli orchestrali con l’ingenuità di un bambino. Il suo volto si oscura, lievemente, solo nella zona di transitorio turbamento che porta nuovamente a atmosfere energicamente luminose; Pappano riesce eccellentemente a rendere il paesaggio pittorico sottostante il disegno melodico del violino. Nell’Andante, dal carattere marcatamente nostalgico, Pappano si dimostra ancora eccellente a spalmare ordinatamente le sonorità orchestrali: Shaham deve affrontare una parte più virtuosistica di quella del primo movimento, riuscendo a far talora piangere il violino (notevoli i vibrati e le messe di voce dello strumento). Nel Presto in moto perpetuo Shaham dà mostra di un incredibile bravura in una linea di virtuosismo continuo, con pochissime interruzioni: un motus perpetuus dal sapore paganiniano, che vale a Shaham calorosi applausi. Shaham si rivela al pubblico romano violinista espressivo, raffinato; lascia ammaliati, soprattutto, il suo incredibile tocco e la fluida, naturale capacità di lettura dello spartito. Un abbraccio fra Pappano e Shaham suggella una performance notevolissima. A quel punto Shaham non può certo lasciare il pubblico a bocca asciutta, senza un bis bachiano.

Il secondo tempo è all’insegna del contemporaneo: John Adams. Pappano, microfono alla mano, saluta il pubblico con gli auguri di un felice 2016 – è il suo primo concerto romano dell’anno – e introduce Harmonielehre ricordando come il titolo alluda al celebre trattato di Schönberg del 1911. Adams, il cui mastro fu allievo diretto di Schönberg (musicista che, chiaramente, conosceva bene), si pone in aperta polemica con l’avanguardia musicale della seconda Scuola di Vienna (come, del resto, con quella di Darmstadt), fedele ai dettami estetici dell’avanguardia statunitense minimalista. Pappano ricorda come Adams avesse rifiutato la complessità armonico/concettuale dell’avanguardia europea per aderire a concetti estetici più semplici; a proposito di Harmonielehre ci consiglia di porre l’attenzione sulla sua complessità ritmica cangiante. Adams voleva comporre un’opera estremamente ironica, che è anche un’apostasia di una serie di conquiste intellettuali del mondo della musica a lui contemporanea. Non solo rifiuta il modernismo schönberghiano, ma anche l’assenza di melodia del minimalismo. Sarà lui stesso ad affermare che Harmonielehre è un «matrimonio strano tra la pulsazione incalzante del minimalismo americano e il mondo sensuale, emozionale, espressivo dei grandi capolavori sinfonici europei». Bisogno istintivo di tonalità e melodia: questa l’apostasia di Adams. Pappano si mostra chirurgico fin dai trentanove accordi con cui si apre la prima sezione, di cui riesce a tenere assieme tutte le spinte ritmiche e a muoversi con spirito di naturalezza fra le varie screziature timbriche; il finale è potentissimo. The Anfortas Wound (II) è la parte più classicheggiante: l’orchestrazione crea onde incessanti, lacustri, brunite che accumulano tensione mediante l’aggiungersi di compagini orchestrali fino a giungere a un grido dissonante e irrisolto, cui segue una crivellata di timpani che affoga i glissandi degli archi. La terza parte si rischiara cristallinamente, in ritmi ostinati, genuinamente minimalisti, che terminano in un finale trionfante. Pappano e l’orchestra sono invasi da meritatissimi applausi.


 

 

 
 
 

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