Uno Stradivari per Prokof'ev
di Alberto Ponti
Marco Angius e il giovane astro Ray Chen in un programma dedicato ad autori russi
TORINO, 22 gennaio 2016 - Mettete un pezzo novecentesco di grande inventiva melodica, mettete un bravo direttore specializzato nel repertorio moderno e contemporaneo, mettete un giovane violinista australiano nato a Taiwan con talento da vendere e uno Stradivari del 1715, appartenuto al grande Joseph Joachim, sotto le dita. Gli ingredienti per un serata memorabile sono tutti presenti e le aspettative del pubblico dell’Auditorium Toscanini di Torino, ritrovatosi il 21 e 22 gennaio per ascoltare il secondo concerto per violino di Prokofiev eseguito da Ray Chen sotto la direzione di Marco Angius, non sono state certamente tradite.
Opera che segna il ritorno a una concezione della forma più tradizionale, dopo l’innovativo primo concerto, il secondo lavoro concertante per violino, in sol minore op. 63 (1935), di Sergej Prokof'ev (1891-1953) è ispirato ai principi di semplicità e chiarezza che caratterizzano la fase produttiva più matura del compositore russo, in apparente allineamento con i dettami estetici suggeriti dall’adesione ai valori socialisti e sovietici, preludio al ritorno in patria (1936) dopo molti anni trascorsi all’estero. Il virtuosismo duttile di Chen, classe 1989, vincitore del concorso Yehudi Menuhin nel 2008, gli consente di affrontare con classe innata le difficoltà di un brano in cui, nonostante il prevalere dell’elemento lirico, sono frequenti gli improvvisi cambi di tempo e di espressione, sostenuti da una compagine orchestrale scintillante nonostante le ridotte dimensioni (archi, otto legni, quattro ottoni e timpani). Ecco allora il gesto elegantemente raccolto del solista farsi repentinamente indiavolato nei passi in cui emerge l’elemento ritmico e percussivo che, seppur stemperati da una scrittura sempre misurata, fanno pensare al Prokof'ev fauve degli anni ’10. Ray Chen regala un’esecuzione profonda e giocosa al tempo stesso, in perfetta sintonia con il carattere dell’opera (‘seriamente leggera’ ebbe a definirla lo stesso Prokof'ev), con un suono che sa mantenersi pulito, morbido e seducente anche nel concitato movimento finale, strappando ai presenti lunghi e calorosi applausi, ricambiati da due bis in cui, a conferma della versatilità dell’artista, si passa con nonchalance da un capriccio di Paganini a una gavotta di Bach.
In apertura e chiusura di concerto, tutto dedicato alla musica russa, l’Orchestra Sinfonica Nazionale ha potuto mettere in luce la qualità di tutti i propri componenti in due opere dall’organico più ampio come il poema sinfonico Le chant du rossignol (1914/17) di Igor Stravinskij (1882-1971) e i cinque Etudes-tableaux di Sergej Rachmaninov (1873-1943) orchestrati nel 1930 da Ottorino Respighi (1879-1936). Angius, esperto navigatore nei mari della musica del Novecento, dirige con gesto preciso, controllato e analitico sia il lavoro stravinskiano che, pur non raggiungendo la sconvolgente immediatezza espressiva dei quasi coevi Oiseau de feu e Sacre du printemps, non è meno ricco di preziosità e raffinatezze timbriche, sia gli studi pianistici di Rachmaninov ricreati dal miglior Respighi. Sarebbe infatti riduttivo parlare di semplice trascrizione da parte del musicista bolognese il quale, senza nulla togliere agli altri illustri componenti della generazione dell’Ottanta, rimane per le straordinarie doti di orchestratore l’unico compositore italiano del secolo scorso ad avere sempre mantenuto, dai suoi tempi ad oggi, il favore del grande pubblico.