Il vecchio e il nuovo
di Stefano Ceccarelli
Continua l’approfondimento del repertorio tardo romantico/novecentesco dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che affida un affascinante concerto tutto russo al neoeletto direttore onorario Yuri Temirkanov, il cui cristallino talento lo rende a buon diritto fra le migliori bacchette al mondo. Lo affianca la bellissima e giovanissima Anna Tifu, violinista dal grande carattere che sa farsi valere in un concerto, il Concerto n. 1 in la minore per violino e orchestra op. 77 di Dmitrij Šostakovič, che richiede uno sforzo tecnico e interpretativo titanico. Temirkanov, inoltre, sceglie di far eseguire per la prima volta in Accademia il Valzer da concerto n. 2 in fa maggiore op. 51 di Aleksandr Glazunov e di terminare il concerto con le struggenti Danze sinfoniche op. 45, pianto senilmente nostalgico di un Sergej Rachmaninov forzatamente lontano dalla sua patria.
ROMA, 1 febbraio 2016 – Il vecchio e il nuovo sono due categorie antitetiche ma complementari: l’una non esisterebbe senza l’altra. Lo dimostra bene il recente concerto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. In programma solo la Russia: la vecchia e la nuova Russia. Sul podio un veterano, Yuri Temirkanov, e una giovanissima solista, Anna Tifu. Un concerto a Ringkomposition: le musiche di Aleksandr Glazunov, che aprono la serata, rispecchiano quell’apertura russa all’occidente, all’occidente raffinato mitteleuropeo che fu lenta ma inesorabile conquista del chiuso mondo oltre gli Urali. Il gusto di Sergej Rachmaninov – le cui Danze chiudono la serata –, quasi coetaneo di Glazunov, era ancora quello, nobilmente raffinato, precedente alla Rivoluzione d’Ottobre (tale sentimento è avvertibile, poi, soprattutto quando, emigrato negli U.S.A., con nostalgia ripensava alla sua patria); fra i due, il più giovane Dmitrij Šostakovič, che della cultura russa pre-1917 aveva vaghi ricordi, e della nuova, contradditoria Russia era il più brillante e bistrattato rappresentante.
Inizia bene Temirkanov con il Valzer da concerto n. 2 in fa maggiore op. 51: l’orchestra è brillante, le sonorità accattivanti e carezzevoli. Temirkanov calca molto sulla patina straussiana della partitura. La musica di Glazunov, lontana dallo sperimentalismo nazionalista dei Cinque, vagheggia gli ori degli imperiali palazzi viennesi: la cifra interpretativa non può che essere una rilassata brillantezza, che Temirkanov cavalca con spirito coreutico. Allievo di Glazunov, Šostakovič è di tutt’altra pasta. Eclettico sperimentalista, visse nell’ansia perenne di dispiacere al regime sovietico, che non mancò di umiliarlo – soprattutto in epoca di ždanovismo. Il Primo concerto per violino, scritto già nel 1935 per il virtuoso e amico David Ojstrach, attese un ventennio per avere la sua première: Šostakovič era impaurito che l’esteso utilizzo di ritmi e melodie yiddish potesse porlo in odor di eresia – per così dire – davanti a un regime, quello sovietico, che non mancò di cavalcare l’orrenda ondata di antisemitismo che faceva tremare l’Europa coeva. Un concerto stupendo, un polittico di grande complessità emotivo/sentimentale, oltre che tecnico/esecutiva. La fortuna ha voluto che proprio Ojstrach, colui per il quale Šostakovič aveva pensato il concerto, l’abbia successivamente inciso, eternandone la sua interpretazione, chiaramente e imprescindibilmente normativa: v’è, difatti, un buon video di un concerto alla Staatskapelle di Berlino del 1967, in cui Ojstrach l’esegue sotto la direzione di Heinz Fricke. Il virtuosismo dell’archetto di Ojstrach è perfettamente intatto: una vera e propria edizione normativa, cui è impossibile non guardare e con cui è difficile confrontarsi. Problema che avrà certamente interrogato Anna Tifu, esecutrice dotata e intelligente; e, in fatto d’istrionismo, del resto, Anna non deve prender lezioni da nessuno: consapevole della sua bellezza, sa essere teatrale, con ampi gesti e una calibrata espressività. Il suo talento virtuosistico è fuori discussione; ma per un’ottima esecuzione del Primo di Šostakovič bisogna aver toccato l’umiliazione del dolore umano più profondo. Non possiamo fare una colpa alla Tifu se la sua eccellente esecuzione tecnica rimanga quasi ovunque epidermica, non scavando materialmente nel dolore profuso da taluni passaggi – come invece riesce il più maturo Temirkanov, che fa risuonare l’orchestra di uno spettro di sentimenti e sensazioni impressionanti. Proprio come accade nel Notturno (I), dove Temirkanov impasta una controllata tetraggine nell’accompagnamento orchestrale che sorregge il lungo canto del violino, un lamento di lunghe arcate che porta a acuti spettrali (eseguiti con perizia, c’è da dire, dalla Tifu). Anna si trova certamente più a suo agio con un virtuosismo più spigliato, come quello dello Scherzo (II), emblematico dell’ironia sardonica di Šostakovič: nelle venature di una scrittura proteiforme si trova lo sconcerto del compositore per gli orrori del Novecento, il secolo delle due guerre. Le sincopi, i salti, i ribattuti, il tripudio di musica popolare yiddish vengono affrontati dalla Tifu con grinta: ma è chieder troppo a una giovane ragazza cogliere nel profondoun brano che è stato definito la «rappresentazione del contrasto tra la fragilità della condizione umana e la dispotica violenza di un regime oppressivo e autoritario» (O. Bossini, dal programma di sala). La Passacaglia è ancora una struggente disillusione sulla vita: peraltro l’allure ritmico della passacaglia in sé ben si adatta all’ethos ambiguo della musica del russo. Ancora nella Burlesca (IV) la Tifu ci dona il dionisismo ritmico del brano, ma non riesce effettivamente a penetrare il senso mortifero di danse macabre che lo informa. La performance piace molto al pubblico: gli applausi richiedono più volte la talentuosa sarda sul palco, tanto che alla fine regala un brano di Enescu.
Il concerto prosegue e termina con le Danze sinfoniche di Rachmaninov. Spirito aristocratico, Rachmaninov pur contemplando le bellezze di Beverly Hills non avrebbe voluto veder altro che gli algidi splendori della Pietroburgo di un tempo: e in questo spirito nostalgico, commoventemente elegiaco, compose l’ultimo suo sforzo. Temirkanov legge queste Danze come solo un russo sa fare. Pur ricercando tutti gl’infiniti colori della tavolozza, Temirkanov lo fa con estremo rispetto e austerità, capendo Rachmaninov fin nel profondo. Nella prima danza il russo coglie il senso della scrittura dei legni, che si dissolve (quasi gli strumenti fossero bolle) per far spazio al lamento del sax contralto, accompagnato dai gemiti degli archi, quando poi il tutto si agita e va a concludersi. La seconda è una sorta di valse triste: ottimo Temirkanov nel giocare con i ritardi, con i falsi attacchi e con le cromatiche volumetrie che giocano sapientemente con i chiaroscuri. Temirkanov, nell’ultima danza, calibra tutto il movimento verticale verso il pacifico e lucente finale, estrema dichiarazione di fede di Rachmaninov. Gli applausi ripagano un’ottima performance.