L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Pallida Sol

 di Roberta Pedrotti

 

Interlocutorio debutto bolognese della star del violoncello Sol Gabetta, musicista elegante ma poco incisiva in un bel programma dedicato a Beethoven, Mendelssohn e Chopin. Al pianoforte Bertrand Chamayou, che con la Gabetta ha appena inciso un CD dedicato proprio al compositore polacco.

BOLOGNA, 07/08/2016 - Il debutto bolognese di Sol Gabetta suscitava legittime aspettative per il curriculum tutto d'oro della trentaquattrenne argentina, da una dozzina d'anni sulla cresta dell'onda fra collaborazioni illustri e contratti con Sony e Deutsche Grammophon. E per quanto alla violoncellista sia stato tributato un caldo omaggio punteggiato di acclamazioni entusiastiche, è difficile mascherare una certa qual delusione per una serata meno elettrizzante del previsto.

Il programma, in duo con il pianista Bertrand Chamayou, si presentava invero raffinato e intrigante con la sua costruzione simmetrica che racchiude grandi due sonate di Mendelssohn (la n. 2 in re maggiore op. 58) e Chopin (il sol minore op. 65) fra due pezzi più brevi d'ispirazione teatrale, le Sette variazioni in mi bemolle maggiore sopra il tema “Bei Männern, welche Liebe fühlen” WoO 46 di Beethoven e il Grand Duo de concert su temi di Robert le Diable di Meyerbeer in mi-la maggiore ancora di Chopin.

Il candore della fiducia nei sentimenti da parte di Pamina e Papageno si articola in sette metamorfosi che sembrano sviluppare quell'apparente semplicità conducendola verso lontani orizzonti in appena dieci minuti di musica senza troppe ambizioni. Ma non c'è bisogno di ambizioni quando si ha l'ingegno di Beethoven a garantire una qualità senza cedimenti. Allo stesso modo la sonata di Mendelssohn ne ribadisce l'equilibrio squisito e la raffinatezza di scrittura, ben più profonda di quanto la serena vulgata del classicheggiante fanciullo prodigio abbia tramandato.

Più tormentato è il lavoro di Chopin, che aspira ad affermarsi come compositore puro, esplorando diversi organici per non esser solo un pianista che scrive, ma un autore completo. Ricorre all'aiuto dell'amico Auguste Franchomme per assicurarsi la tecnica e le caratteristiche idiomatiche del violoncello, non rinuncia ai suoi stilemi caratteristici, ma guarda a nuove soluzioni, evidenti anche in un pezzo apparentemente di consumo come il duo dal Robert le Diable, che non punta ai temi più caratteristici (quelli, per esempio, rielaborati da Liszt nella sua equivalente fantasia pianistica), bensì quelli più lirici, privilegiando le espansioni riservate alle voci femminili.

Materia, dunque, raffinata e intrigante, che ci lascia, però, l'amaro in bocca per una generale mancanza d'incisività e di mordente nell'archetto della Gabetta. Il braccio esile della solista rivela la tensione del muscolo della scapola, che si fa improvvisamente nerboruto premendo sulle corde, tuttavia la pressione non si traduce nella cavata ampia e avvolgente che ci si aspetterebbe, né, si badi bene, in accenti ficcanti: il problema non è il desiderare chissà quale opulenza di suono, ben venga anche un approccio fatto di trasparenze levigate e delicatezze, se però ben equilibrato con il pianoforte (e quello di Chamayou risulta in proporzione fin troppo brillante e poco sfumato), se illuminato da un'articolazione penetrante, da un fraseggio indimenticabile.

È indubbio che il meglio della Gabetta si ascolti nei tempi lenti, nei momenti elegiaci e cantabili, che pure non giungono ad affascinare con una poesia superiore; parimenti se notiamo un'aggraziata agilità nelle dita della mano sinistra, l'articolazione musicale e non è comunque tale, e talmente netta, da compensare lo sforzo poco produttivo della destra. Forse lo spazio del Manzoni, decisamente ampio per un duo da camera, l'ha spaventata spingendola a forzare come un cantante poco sicuro della propria proiezione? Fatto sta che Sol Gabetta in quest'occasione ha ricordato proprio quei cantanti cui il talento e un certo charme, ma non il genio, permette in breve tempo di giungere alla fama senza rifinire tutti gli aspetti della tecnica, senza smaliziarsi al punto da uscire indenne dai cimenti più insidiosi di ruoli, repertori, spazi diversi. Forse in un'altra occasione avremo modo di apprezzarla maggiormente.

Resta, dunque, un senso di sospensione, anche dopo il bis, un Rachmaninov piuttosto insipido e melenso (ma confesso l'impressione personale imputata più all'autore che agli esecutori).


 

 

 
 
 

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