Un venerdì santo da virtuoso
di Francesco Lora
Lo Stabat Mater di Rossini al Teatro La Fenice dà occasione a Myung-Whun Chung di esibire i pregi tecnici di Orchestra e Coro, coadiuvato da un ottimo quartetto di cantanti solisti: Remigio, Comparato, Rocha e Palazzi. Spiace solamente il fraintendimento del penultimo “numero” musicale, erroneamente affidato al coro secondo una tradizione dura a morire.
VENEZIA, 25 marzo 2016 – Tra i segni della salute gestionale e artistica del Teatro La Fenice, oggi, v’è lo stretto legame di Orchestra e Coro con Myung-Whun Chung: questi non è formalmente direttore musicale, ma ogni anno torna a Venezia per prendere le redini di un concerto, di un’opera o di entrambi, e rinnova così i reciproci stima, affetto e vantaggio. Anche alla vigilia dell’ultima sua recita di Madama Butterfly, nel giorno di venerdì santo, Chung è dunque salito sul podio per un concerto a tema: in programma, il blocco unico dello Stabat Mater di Rossini. Fiera del belcanto oltre che capolavoro della musica sacra ottocentesca, la partitura autorizza a dar subito conto del quartetto di solisti. Nell’occasione: Carmela Remigio, soprano di sempre primario riferimento per doti timbriche, estensive e retoriche, abile nel non fare il passo più lungo della gamba e a comunicare sempre nel calibro lirico una forza espressiva genuina, convinta e trascinante; Marina Comparato, mezzosoprano acuto con consapevolezza tecnica adeguata a farle dominare una tessitura più grave di quella congeniale, degna di attirare su di sé l’orecchio anche quando nell’ombra del canto a intervalli paralleli; Edgardo Rocha, tenore di solida specializzazione rossiniana, lievissimo per corpo vocale senza perdere timbro personale e varietà di colori, capace di volare nel «Cuius animam gementem» a un Re sovracuto di disarmante facilità; infine Mirco Palazzi, basso che ha sempre dalla sua l’italiana sugosità di pasta unita a un porgere moderno, sobrio, giovane, così da venire serenamente a capo di una pagina imprevedibile ed enigmatica come l’«Eia, Mater fons amoris».
Eccellente il Coro, preparato da Claudio Marino Moretti nel segno della salutare tradizione che coniuga sfarzo del materiale (impagabile sotto le Alpi) e sfumature nella lettura (ma senza calligrafismi). Trasfigurata l’Orchestra, che condotta da Chung conserva la carezzevole cantabilità del Belpaese, ma che nell’esibito rullo dei timpani e nel mordente scoppio degli ottoni mostra fieramente i denti alle armatissime compagini mitteleuropee. Lettura di Chung improntata non tanto alla ricerca intima quanto alla declinazione virtuosistica: grandiosi gli echeggi funerei, sopraffino l’accompagnamento al canto, compiaciuta la mostra di questa o quella sezione nell’insieme, lanciato a considerevole velocità il gorgo della fuga finale (bissata a furor di popolo, e con metronomo incalzante di una tacca in più). Una sola macchia, da lavare via una buona volta, qui e in ogni altra esecuzione dello Stabat Mater (non escluse quelle al Rossini Opera Festival). Il penultimo “numero” musicale, «Quando corpus morietur», è – e non potrebbe essere altro che, per evidenza strutturale e scopo drammaturgico – un quartetto per voci sole, le quali devono mostrare abilità anche in questo scabrosissimo intreccio a cappella, senza alcun sostegno o accompagnamento strumentale; solo così può essere apprezzato il contrasto tra questa perigliosa rarefazione e il traboccante assieme del coro conclusivo sull’«Amen». Chung, al contrario, prosegue nella tradizione pigra, errata, obsoleta e vanificante di assegnare il brano all’intera compagine corale, affrancandosi così dal rischio di deriva nell’intonazione e, in un certo senso, mettendo le mani avanti sull’affidabilità dei solisti. Anche basta.