Martha la grande alla corte di Chailly
di Pietro Gandetto
La Filarmonica della Scala regala a Milano una grande serata in piazza Duomo con Riccardo Chailly sul podio e Martha Argerich al piano.
Milano – 12 giugno 2016. Neanche la pioggia di questa pazza primavera ha osato guastare la quarta edizione dell’Open Filarmonica, il concerto gratuito della Filarmonica della Scala in Piazza Duomo a Milano. L’attesa è tanta. Tutto è pronto. 40.000 milanesi e turisti affollanno una delle piazze più famose del mondo, avvolta in un religioso e surreale silenzio. Sotto lo sguardo vigile dell’imponente cattedrale, impeziosita dalle guglie illuminate di rosa, il pubblico accoglie con calore la Filarmonica diretta dal Maestro Chailly, già lasciando presagire gli scroscianti applausi riservati alla regina della serata, la leonessa della pianoforte, la pluri-stellata pianista argentina Martha Argerich.
Come ha dichiarato lo stesso Chailly, “la sinfonica ha aperto le porte del teatro classico e arriva in piazza. Per tutti”. Il grande merito del Maestro è proprio quello di aver scelto un programma appetibile, con brani noti e altri meno conosciuti, per avvicinare il pubblico dei non tecnici alla musica d’arte.
La serata si apre con L'apprenti sorcier (l’apprendista stregone) di Paul Dukas, il celebre poema sinfonico composto nel 1897, noto ai più grazie a Fantasia, film prodotto da Walt Disney nel 1940, di cui fu, in parte, colonna sonora. Già dalle prime battute s’intuisce il livello della serata. Chailly guida l’orchestra con gesto morbido e autorevole e le scale esatonali di Dukas catturano l’attenzione del pubblico.
Si passa poi all’Uccello di Fuoco di Stravinskij, in cui il linguaggio diatonico del compositore trova nella bacchetta del Maestro Chailly interprete ideale. Le straordinarie invenzioni strumentali del compositore russo vengono rese dalla Filarmonica con vivida espressività grazie a una vibrante incidenza del ritmo. Le frasi sono brevi e sintetiche, la struttura orchestrale si scontorna a blocchi, in contrapposizione con i differenti piani tonali che caratterizzano il balletto.
Dopo i due brani sinfonici eseguiti dalla Filarmonica, è il momento dell’attesissima Martha Argerich. Un semplice braccialetto rosso al polso destro, due cerotti nelle dita di una mano e altri due nell’altra, quasi a raccontarci i segni di simboliche battaglie combattute con il pianoforte, domandolo con studio costante e ricerca indefessa, prima che lui domasse lei.
Chi ha avuto il privilegio di sentirla dal vivo, sa bene che non è agevole esprimere a parole il magnetismo e il fascino incontenibile che quest’artista sprigiona quando posa le mani sulla tastiera. Non esiste, nella personalità di Martha Argerich, nulla di artificioso. Non c’è sentimentalismo, ma un’emotività naturale che si esprime attraverso la musica e che nella musica trova la sua piena realizzazione. Basta una mano che sfiora i capelli d’argento, un leggero arricciamento del labbro, o un movimento delle dita, per catturare l’attenzione e rapire chi l’ascolta. Un fascino ineffabile, selvaggio e palpabile nell’esternazione di una musicalità innata e di un talento che non conosce limiti. Sorprendente, ancor oggi, il controllo delle dinamiche, la fluidità dell'articolazione e delle note ribattute, l’agilità espressiva che la pianista settantacinquenne ha conservato intatti nell’arco della lunga carriera, dal debutto a sette anni (1948) con il Concerto per pianoforte e orchestra in do maggiore n.1 di Beethoven.
Il concerto di Ravel in sol maggiore (1932), cavallo di battaglia dell’argentina, si apre con un secco colpo di frusta cui fa seguito il frizzante e delicato tema dell’ottavino, secondo un ritmo che ricorda la danza popolare francese della branle. Il motivo passa subito alla tromba e si capillarizza in tutta l’orchestra. Il tocco elegante di Argerich innnesta un sensuale dialogo tra la tastiera e l’ensemble, in un susseguirsi di temi jazzistici e di altri d’ispirazione iberica, alternando i registri chiave dello stile raveliano, tra brillanti pennellate e microcosmi lirici di grande effetto.
La semplice e aristocratica melodia affidata al pianoforte nel secondo movimento viene eseguita da Argerich con una delicatezza e una purezza dinamica senza eguali. Nel canto del pianoforte s’inserisce il tema del flauto, con quella placida e puerile tenerezza che solo i capolavori raveliani possono trasmettere. Il sussurrato dialogo tra i legni e lo strumento solista si alterna agli arpeggi e ai cristallini trilli del pianoforte che infondono un’atmosfera di soffusa e disincantata tranquillità sulla piazza.
Ogni espressione del volto di Argerich sembra esprimere le emozioni che accompagnarono la stesura dell’opera, concepita da Ravel al culmine della sua maturità artistica. E se è vero che, come diceva Magda Olivero, il compito di un artista è far rivivere al pubblico quello che l’autore provava, possiamo dire che Argerich ha ben pochi rivali in questo.
Nel dominare gli esigenti accordi del terzo movimento, l’incedere percussivo del pianoforte si alterna alla frenesia metrica e alla vivacità espressiva dell’orchestra. I temi jazzistici e le liete fanfare degli archi ritornano in un continuo incrocio di zampilli e trasformazioni ritmiche. Dopo Ravel, cinque o sei chiamate sul palcoscenico, attraversato dalla Argerich con una certa stanchezza, complice il trascorrere degli anni.
La temperatura della serata giunge al culmine con l’attesissimo Bolero di Ravel. L’ipnotico incedere due temi principali è condotto dalla Filarmonica con un esotismo che sembra provenire da mondi lunari. È soprattutto qui che il Maestro Chailly e i professori sfoggiano i più evidenti segni di un disegno orchestrale organico e di una esperienza concertativa di alto profilo. Suono mai metallico, ma caldo e sinuoso, dove la qualità timbrica non viene sacrificata in favore di facili sensazionalismi e anzi illumina la piazza, avvolta in un’atmosfera da sogno tra il Duomo e la statua equestre di Vittorio Emanuele II.
Bis con con un brano dalla Strada di Nino Rota.
Un grande successo. Un grande regalo a Milano.