Il cuore dell'artista
di Roberta Pedrotti
Nel recital che corona il graditissimo ritorno di Pietro Spagnoli al Rof, il baritono romano non nasconde le proprie emozioni e, perfino, le proprie fragilità, regalando momenti di rara intensità e una riflessione preziosa sull'umanità dell'artista.
PESARO, 11 agosto 2016 - Ci sono concerti di canto riusciti o meno riusciti, avvincenti o tediosi, ricercati o popolari, tali da suscitare entusiasmo o perplessità, ma semplicemente concerti. E poi ci sono incontri musicali che vanno oltre i confini del recital, nei quali cadono le maschere dell'interprete, si infrange il diaframma fra artisti e pubblico, abbiamo solo un essere umano che condivide se stesso attraverso la musica.
Pietro Spagnoli mancava da Pesaro dal 2002, quando aveva impersonato un memorabile Macrobio nella Pietra del paragone. Negli anni precedenti lo ricordiamo, per esperienza diretta, fascinoso Filippo nella Gazzetta, tormentato Califfo in Adina, ammiccante Gaudenzio nel Signor Bruschino, ironico ma autorevole Ginardo in Matilde di Shabran; vederlo tornare ora come Poeta nel Turco in Italia è come ritrovare un vecchio amico dei palcoscenici rossiniani, un grande artista legato a splendidi ricordi e che molti splendidi momenti può ancora regalare. Accompagnare questo ritorno dopo quattordici anni con la programmazione di un Concerto di Belcanto solistico pareva naturale. Altrettanto naturale poteva essere aspettarsi un'oretta o due in compagnia di un musicista (anzi due, con il pianista Giulio Zappa) di valore gustando il classico inanellarsi di arie selezionate con cura. Invece, Spagnoli, fa di più, fa altro, si presenta mettendo a nudo le sue emozioni di artista e di uomo, il suo modo intimo di vivere la musica: torna a Pesaro, per la prima volta è impegnato in un recital solistico, e non nasconde quel batticuore che gli anni di grande carriera non hanno cancellato, non nasconde la capacità di commuoversi cantando, di condividere una lacrima, la timidezza di chi deve presentare se stesso e non un personaggio, un pizzico d'ansia.
Spagnoli nei panni di questo o quel personaggio è uno splendido attore che riconosciamo maestro dell'arte scenica; Pietro può tradire l'emozione, il controllo del gesto, e ammetterlo serenamente, nello spiegare che il leggìo sul palco serve a prevenire qualche vuoto di memoria benché tutto il programma sia ben noto e rodato, nel dichiarare l'arsura che l'ha colto quando beve un sorso d'acqua. Si rimane perfino disorientati di fronte a un cantante di questo spessore che rivela con tanta franchezza la sua umanità indifesa, d'autentico sensibile artista, e gliene siamo grati, ché troppo spesso si dimentica quanto il suo sia un mestiere totalizzante, un magnifico artigianato in cui l'essere umano è strumento e strumentista, mente, pratica e materia. Una professione, ma anche molto di più. Così il professionista Spagnoli canta sempre benissimo, la voce è sempre intatta, bella, duttile, sicura in tutta la tessitura e in tutte le gradazioni dinamiche, fragrante nell'articolazione del testo, nel lasciar discendere naturalmente il canto dalla parola. Così Pietro ci ricorda che dietro quell'espressione vocale così salda e rifinita ci sia un uomo che si emoziona, che prova sentimenti, che può anche fermarsi, dopo aver attaccato l'ultimo bis (una canzone spagnola), perché quel pezzo lo tocca profondamente e, spiega, la commozione, il coinvolgimento possono turbare la posizione del fiato e impedire il buon canto più della difficoltà tecnica astratta di un pezzo.
Si comincia con due pezzi che nei recital convenzionali fungono il più delle volte da “scaldavoce”, “O del mio dolce ardor” da Paride ed Elena di Gluck e Caro mio ben di Giordani, ma il solo fatto che entrambi appaiano pensati con un'intelligenza poetica e musicale così spiccata e, parimenti, pervasi da questa ineffabile tensione, che li ammanta di una sorta di fragilità interna, offre già la cifra dell'intero concerto, che prosegue con lo sconforto dell'impresario Fallito (di nome e di fatto, evidentemente) dall'Opera seria di Gassmann e, quindi, con un saggio ideale delle comprovate virtù mozartiane di Spagnoli: "Madamina, il catalogo è questo", "Vedrò mentr'io sospiro", "Aprite un po' quegl'occhi". Servi e padroni, il racconto d'amori altrui, il tormento del libertino fra orgoglio e sincera delusione, la gelosia dello sposo innamorato che degenera in misoginia universale: tre facce del mondo maschile nelle penne argutissime di Mozart e Da Ponte e nell'interpretazione profondamente intelligente di un vero artista.
Dopo un intermezzo per pianoforte solista (le Stances à Madame de Pompadour di Séverac) e un cambio d'abito in favore di una camicia evidentemente più pratica della giacca indossata fino ad ora, ecco che scatta qualcosa di speciale, quella scintilla che fa prendere il volo al concerto, come se con Rossini il crescendo arrivasse al culmine, la tensione si sciogliesse definitivamente e, dopo la rarefatta elegia dello splendido L'ultimo ricordo, l'amato Dandini rinfrancasse del tutto il baritono romano che tante volte l'ha incarnato superbamente. “Come un'ape ne' giorni d'aprile” è un'aria bella quanto difficile è Spagnoli l'ha vissuta nota per nota regalandone una delle più belle interpretazioni ascoltate da parecchio tempo a questa parte. Che musicalità, che precisione, che esattezza, ma soprattutto quanta umana verità nell'amore che traspariva da ogni battuta della cavatina!
Nondimeno, la micidiale “Sia qualunque delle figlie” di Don Magnifico è sciorinata con spirito e chiarezza d'articolazione esemplari.
Spiace un po' che, stretta fra pagine operistiche affatto distanti, l'atmosfera di Lune d'avril di Poulenc sia rimasta un po' isolata e non valorizzata al massimo: ci auguriamo che in futuri recital Spagnoli ritagli uno spazio più ampio (se non addirittura un percorso monografico) a questo repertorio che pare adattarsi assai bene al suo modo di dire la musica.
Chiude il programma ufficiale un monologo dell'onore dal Falstaff verdiano piacevolmente libero da tutte le consuetudini che siamo abituati ad associare al personaggio, seppur non tutte necessariamente negative o retrive. Questo sir John ha una sua nobiltà, una nobiltà vissuta anche sul campo (non dimentichiamo che John Falstoff fu avversario diretto di Giovanna d'Arco) e non ostentata con affettazione: così prende corpo, nella lettura intelligente dei versi di Boito, sotto altra luce il consapevole epicureismo dell'ultimo (anti)eroe verdiano, sprezzatore della doxa, dell'opinione – e dunque dell'onore –, gaudente per scelta.
Ed è un trionfo, applausi, tumulti di piedi battuti sui pavimenti dell'auditorium Pedrotti, che odora delizioso di legno, polvere e velluto, odora di teatro, di quel teatro vivo e pulsante incontrato oggi, commuovendoci con Spagnoli esattamente come ci entusiasmiamo nell'ascoltare, primo bis, il suo eccellente Figaro rossiniano. Seguiranno altri due fuori programma “leggeri”, entrambi sentitamente romantici (uno, in italiano, è Parlami d'amore, Mariù, l'altro, il tango El día que me quieras di Gardel, è infine portato a termine dopo un momento di commozione).
Forse, nel complesso, avremo sentito Spagnoli più in forma in qualche recita operistica, lo avremo visto più disinvolto, più sicuro, da professionista del teatro qual è, ma se, con tecnica e mezzi indubbiamente sempre di prim'ordine, oggi ha lasciato più spazio al suo cuore, questo vale molto di più, perché senza i sentimenti e le emozioni, le fragilità perfino, dell'essere umano, nessun cantante può valere nulla. Questo il pubblico lo ha capito, lo ha condiviso, lo ha vissuto ed espresso con il suo calore.
foto Amati Bacciardi