Kobrin l'ipnotista e l'ultimo Schubert
di Alberto Spano
Per il breve quanto prezioso Kawai a Ledro Piano Festival, Alexander Kobrin illumina Brahms e Schubert.
LOCCA DI LEDRO (TN), 11 agosto 2016 – Il breve ma qualificato “Kawai a Ledro Piano Festival” che si tiene nel Centro Culturale di Locca grazie ad un'intuizione di Roberto Furcht e alla sagace direzione artistica di Angelo Foletto, giunge alla sua dodicesima edizione e ospita uno dei migliori concerti dell'estate italiana, il recital del pianista russo-americano Alexander Kobrin. Il quale fra il 1998 e il 2005 si impose ai concorsi di Glasgow, Bolzano (Busoni) e Fort Worth (Van Cliburn), illuminandoli di luce propria. Non lo ascoltavamo dal vivo da molti anni e quindi l'occasione era assai ghiotta, in virtù anche della presenza sul palco di un fiammante gran coda Shigeru Kawai di ultima generazione prestato da Furcht Italia, e dal bellissimo programma proposto che, alle due Rapsodie op. 79 di Johannes Brahms, accostava la favolosa ultima Sonata di Schubert, la n. 21 in si bemolle maggiore opera postuma, D. 960.
Oggi Kobrin ha trentasei anni, ne dimostra sempre diciotto con quella sua bella faccia da sosia di Harry Potter, ma è a nostro avviso già un gigante assoluto del pianoforte, uno di quei rari esempi di interprete in cui alle doti tecniche da virtuoso si sposa un'intelligenza musicale sopraffina e una sensibilità verso la materia sonora che a volte rasenta l'assoluto. Kobrin ha raggiunto un tale livello di confidenza con il suo strumento, un tale dominio della corsa del tasto e dell'emissione di ogni suono che spesso si rimane basiti. Basiti, ma – intendiamoci – rapiti: perché Kobrin oltre che un eccezionale scienziato del suono, capace di far “cantare” il più infinitesimale pianissimo attraverso un controllo quasi maniacale del tasto e del pedale, è poi capace di tenere avvinghiato lo spettatore ad ogni singola nota come un bravissimo ipnotista. Questa sibaritica abilità avvince e commuove, anche perché è solo uno dei mezzi che Kobrin mette in opera per penetrare ed esporre il messaggio del compositore: il suono è, cioè, sempre strettamente connaturato con la logica musicale stringente che Kobrin usa per squadernare ogni singola pagina, con una chiarezza quasi sconcertante. Perché sotto le sue mani qualsiasi musica sembra come spiegata all'ascoltatore, come se al pianista che suona sul palco fosse incorporato anche un eccezionale narratore della storia. La qual cosa – banale dirlo – è forse la massima conquista per qualsiasi artista che si esibisca in pubblico.
Così, dopo aver sciorinato con perfetta cura dei dettagli e della forma le due Rapsodie di Brahms, interpretando con assoluta convinzione le indicazioni agogiche d'autore, Agitato per la prima e Molto passionato, ma non troppo allegro per la seconda, cioè spingendo l'acceleratore e facendo assaporare tutta la potenza del motore, pur mantenendo quel margine indefinibile e profondo che è la sostanza del linguaggio brahmsiano, ecco immergersi nelle dense e quasi limacciose lunghezze dell'ultimo Schubert, di quel fantastico monumento musicale che è la Sonata in si bemolle maggiore, scritta a poche settimane dalla morte. Un'opera che spaventa i più, per l'eccezionale grado di maturità e di saggezza che richiede a chi la suona. È abbastanza invalsa la tradizione di eseguirla come opera eminentemente romantica, con tutti gli abbandoni lirici e i rigonfiamenti sonori che hanno reso celebri certe letture di scuola russa o, all'opposto, con una certa asciuttezza sonora condita da scorrevolezza e semplicità d'eloquio, alla ricerca di una purezza classica che pure sottende tutta la composizione, come consiglia la scuola viennese.
Con Kobrin ritroviamo tutte queste componenti meravigliosamente fuse in un coacervo di sensazioni e immagini le più varie. C'è il cammino, il senso del Wanderer, il discorso che si dipana con semplicità e decisione, ma ogni tanto il cammino è come sospeso: ci si ferma a contemplare un paesaggio, ci si guarda indietro, ci si crogiola in un dettaglio. Esemplari in questo senso sono parse le poche battute di raccordo al primo ritornello, in cui tutto, suono, tempo, disegno, dinamica, sembrano fermarsi. Un'attesa, un esagerato rubare, una rarefazione che è però assolutamente coerente, in cui l'attesa è densa di fremente tensione spasmodica.
Per non dire poi delle meraviglie sonore dispensate da un Kobrin in stato di grazia nel secondo movimento, Andantino sostenuto, in cui ogni nota è distillata e offerta all'ascoltatore come in un sogno sospeso. E poi il carattere finalmente contrastante, corrusco, nervoso e provocatorio impresso alla Scherzo (Allegro vivace e Trio), in cui è esibita da Kobrin una fantomatica sonorità trattenuta, livida e soffocata che stordisce l'uditore. Infine l'Allegro ma non troppo, con quella celebre ottava di Sol da cui tutto scaturisce, quasi una scampanellata di morte, sempre continuamente elusa. Il pubblico di Ledro, letteralmente rapito, veniva gratificato da due bis altrettanto strepitosi per la loro purezza: il debussyano Preludio “La fille aux cheveux de lin” (La ragazza dai capelli di lino) e il Preludio in mi bemolle minore dal primo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach, in cui Kobrin continuava a donare tutte le meraviglie sonore di cui sopra.