L’Ape musicale

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P. Kopatchinskaja in prova con il primo violino della St. Paul Chamber Orchestra Steven Copes

Suonare in faccia alla Morte

 di Roberta Pedrotti

Al fianco dell'ottima St. Paul Chamber Orchestra, Patricia Kopatchinskaja propone un programma elaborato intorno al quartetto schubertiano La morte e la fanciulla. Più che i giochi di luce e intrecci musicali ideati dalla mercuriale violinista moldava, colpisce la prima parte dedicata a rarità di Gideon Klein (1919-1945) e Felix Mendelssohn.

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BOLOGNA, 21 novembre 2016 - Leggendo il programma quel che cattura subito la curiosità è la bizzarra composizione della seconda parte del concerto, che smembra il quartetto di Schubert La morte e la fanciulla intercalandolo con libere associazioni dai canti sacri bizantini fino a Kurtág. Quel che conquista nel concreto dell’ascolto, però, è la prima parte, che echeggia, in fondo, non troppo da lontano la languida danza con la Morte cara al romanticismo schubertiano.

Ad aprire la serata è, infatti, la Partita per archi di Gideon Klein, nato nel 1919 e internato prima a Terezienstadt, dove fu attivo come compositore insieme con Haas, Krása e Ullman, quindi trasferito nel 1944 ad Aushwitz, dove morì alla vigilia della Liberazione forse di stenti e malattie, forse nelle esecuzioni sommarie degli ultimi giorni. Proprio ai durissimi mesi nel campo di sterminio polacco risale questa Partita (in origine per trio d’archi e poi trascritta per un ensemble più vasto da Vojtěch Saudek) e, ascoltandola, si sente penetrare nelal pelle un vivo disagio, inesorabile: quella è la musica con cui un uomo di nome Gideon si aggrappava alla vita, continuava ad affermare di essere un uomo nonostante tutto intorno a lui volesse affermare il contrario. E non è una musica dura, disperata, è piena di energia, ha in sé una pulsazione orgogliosa, quasi insolente, un’autoaffermazione potente ma non autoritaria, perché rivendica proprio il sentimento, la gioia di vivere, il movimento, il senso. Si tratta di pezzi affatto differenti, ma l’ironia con cui Mahler tratta la marcia funebre del Titano o i versi carnali con cui, nella Quarta sinfonia, fa cantare un paradiso fatto di profumatissime leccornie contadine si avvicina allo spirito perturbante di questo pezzo, che riesce a essere bello, interessante, ben costruito anche senza valutare un contesto nel quale era un'impresa procurarsi anche solo il materiale per scrivere. Là dove mancano i minimi presupposti di dignità e sopravvivenza l’uomo riesce a resistere in quanto artista, e crea.

L’angoscia non abbandona al pensiero che, fosse nato giusto un secolo dopo, anche Felix Mendelssohn avrebbe subito sorte analoga: se anche un’intera sinfonia proclama la sua adesione al cristianesimo riformato, le origini etniche e culturali non son cosa che l’antisemita subordina a un battesimo. Nato in una famiglia di intellettuali più sensibili alla comodità burocratica del luteranesimo che a sentiti atti di fede, Felix a soli tredici anni compose un concerto in re maggiore per violino e archi che rimase nel cassetto fino alla riscoperta nel 1952 da parte di Yehudi Menuhin. Nella vena felice del ragazzino si intende già tutta la chiarezza d’idee e costruzioni, tutto l’equilibrio e tutta la sensibilità delle opere maggiori. In più, nelle proporzioni inevitabilmente più limitate – il concerto nasce a uso domestico – si fa spazio con una freschezza particolare anche un aroma di danza popolare che pare guardare a Est, alle tradizioni tzigane. Questa vivacità di spirito offre alla violinista Patricia Kopatchinskaja di offrire il meglio di sé, con la sua personalità mercuriale, fuori dagli schemi e forse anche un po’ sopra le righe. Il suo suono sottile e nervoso non sempre perfettamente a fuoco nel grande concertismo classico guizza qui assecondando il carattere speziato di questo piccolo, grazioso lavoro adolescenziale, e non dispiace affatto. Tanto più che la Kopatchinskaja ha l’intelligenza e l’intuito per coinvolgere nel suo progetto e nella sua tournée l’eccellente St. Paul Chamber Orchestra: non sempre le orchestre cameristiche si dimostrano pienamente all’altezza della propria fama, tanto è delicato il loro ambito, ma in questo caso l’ottimo livello tecnico di ogni elemento fa il paio con una coesione capace di fraseggiare con autentico mordente, restituendo una precisa cifra stilistica e interpretativa a Klein come a Mendelssohn.

La qualità esecutiva non scende nella seconda parte, in cui fra le pieghe dello Schubert della Morte e la fanciulla (sia il Quartetto sia il Lied nella trascrizione di Michi Wiancko) si insinuano un canto bizantino sul Salmo 140 arrangiato dalla Kopatchinskaja, Lachrimae Antiquae Novae di John Dowland, di Kurtag Ligatura – Message to Frances-Marie (The Answered Unanswered Question) e, dai Kafka Fragmente, Rhuhelos. La St. Paul Chamber Orchestra ribadisce una duttilità, una compattezza e una sensibilità tecnico-stilistica di primissimo ordine, mentre la Kopatchinskaja, benché il suo violino non s’imponga sempre per incisività e pregnanza sonora, ha buon gioco nel farsi valere con un programma che ha studiato nei dettagli, perfino nei giochi di luce. Celebre per l’abitudine di suonare scalza, non teme di sentirsi libera sul palco, canticchia fra sé e sé, si aggira sul palco, saltella, volge le spalle al pubblico, come un folletto impertinente e vivace sospeso fra ingenuità e astuta consapevolezza. Declama, quasi sibila, perfino, il testo del Lied trasformandone la trascrizione strumentale in una sorta di melologo. Il problema è che tanto spirito non riesce tuttavia a persuaderci del tutto della necessità illuminante di questi accostamenti, che, intercalando i movimenti del Quartetto, non fanno che diluirlo. Resta un capolavoro, anche suonato da una ventina di persone, anche ascoltato a rate, così come restano belli, suggestivi e ben suonati gli innesti, per quanto al di là di una speculazione laterale sul tema della morte, del compianto e della trascendenza in musica dalla tarda antichità ai giorni nostri, labili risultino i punti di coesione e corrispondenza che possano infondere reale sostanza al discorso. Un esperimento ardito che, alla fine, convince solo parzialmente.

Non è un caso che gli applausi maggiori siano al termine della prima parte e l’impressione maggiore resti quella destata dall’accostamento fra Klein e Mendelssohn.


 

 

 
 
 

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