Uno zar al pianoforte
di Stefano Ceccarelli
Straordinario il concerto di Evgeny Kissin all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Il russo – vera rock-star del pianoforte – regala una performance semplicemente perfetta. Cuore, cultura, raffinatezza, tecnica sopraffina: tutto possiede lo zar del pianoforte, che porta un programma che non lo risparmia di certo, con una ciliegina sulla torta finale. La Sonata in do maggiore K 330 di Wolfgang Amadeus Mozart, la Sonata in fa minore op. 57 “Appassionata” di Ludwig van Beethoven, i Tre Intermezzi op. 117 di Johannes Brahms e – dulcis in fundo – un’antologia di Isaac Albéniz, Granada, Cadiz, Asturias da Suite española op. 47 e Cordoba da Cantos de España op. 232, e per concludere Viva Navarra! di Joaquín Larregla. Il concerto ottiene un successo straordinario: un’autentica ovazione ricompensa l’immenso Kissin.
ROMA, 14 dicembre 2016 – È impossibile stilare una veritiera classifica dei più importanti pianisti al mondo; troppi i margini di soggettività, il gusto personale, l’importanza che si dà a differenti aspetti dell’arte pianistica. Eppure, dubito che – chiunque la faccia, qualunque siano i parametri – Evgeny Kissin possa scendere al di sotto del podio. Siamo di fronte a un genio che coniuga gusto, raffinatezza, talento, cultura, tecnica: e, ora, anche tantissimi anni di esperienza, sapientemente sfruttati per migliorarsi sempre più. Il concerto che ci ha regalato nella sala Santa Cecilia (neanche sufficientemente gremita – a mio giudizio – per il talento del pianista) ne è la dimostrazione lampante: un vero miracolo in musica, come non se ne sentono più.
Non fa in tempo a metter piede nella sala, Kissin, che viene già inondato di calorosi applausi: tanti i piccoli pianisti in sala, ovanti al loro idolo. La Sonata in do maggiore K 330 di Mozart apre questo programma cronologico – e logico nel suo svolgersi – che vede la scelta di brani celebri, significativi, quasi in controtendenza rispetto a talune derive concettistiche di molti dei programmi oggi presentati nelle maggiori sale da concerto. L’atmosfera è carica di aspettative: Kissin le scioglie in positivo con una naturalezza impareggiabile. Il suo Mozart è imperniato sul tocco, su un suono tattile – incredibilmente sensibile – atto a ricreare le raffinate atmosfere salottiere del secolo dei Lumi, quelle atmosfere ovattate, quasi monocrome, le uniche che permetteva il ‘povero’ pianoforte dell’epoca. Non è vezzo filologico, però, fine a sé stesso, quello di Kissin: il linguaggio elegante dell’Allegro maestoso (I), il fresco giocare di scale e arpeggi (una firma autenticamente mozartiana) è reso con parco uso della pedaliera, con tale perfezione da lasciare di stucco. L’Andante cantabile (II) scorre tutto nella sua soffusa dolcezza, venata di quella smarrita, impercettibile angoscia che Kissin versa con sapienza, nei momenti topici – come alcune note ribattute. Come gioca con i colori, Kissin, con l’agogica! Il pianoforte sembra quasi palpitare di respiri. (Solo quando si ha il suo talento e si vive la musica con tale pienezza, si può raggiungere questo ideale risultato!). L’Allegretto finale esplode in tutto il suo argenteo spumeggiare. Il tempo di raccogliere gli applausi e Kissin è subito pronto alla prova dell’Appassionata di Beethoven. Una sonata famosissima, pregna dei sudori del primo Romanticismo – quello più idealizzante –, i sudori dell’artista davanti alla vita. Kissin non si tira indietro: commovente, intenso, imposta tutto l’Allegro assai (I), senza esornativi vezzi retorici, su un’agogica fatta di forti rubando, distensioni, riprese, esplosioni, tutto su un velo chiaroscurale trapunto del colore di ogni tocco di un tasto. Alla fine tira quasi un sospiro di sollievo, prima di suonare con perizia alessandrina (non sterilmente pedante, ma dotta, colta) il carattere delle variazioni dell’Andante con moto. Il virtuosismo prettamente muscolare, l’energia sprigionata dai passaggi più arditi, si accompagna al senso profondissimo della musica dell’ultimo movimento. Incredibile: il pubblico, in piedi, osanna Kissin già alla fine del primo tempo, tanto che il pianista rientra più volte sul palco.
Brahms è la naturale conclusione di questa triade ch’è iniziata con Mozart. Un Brahms intimo, quello dei Tre Intermezzi op. 117 che Kissin rende plasticamente col mezzo-forte, con coloristiche mezze tinte carissime a una poetica fin de siècle – benché ancorata a un tardo-romanticismo che in Brahms è fondante, midollare, non esente certo da un forte, ipnotico simbolismo (qui quello materno, espressivamente significato dall’uso della ninna nanna). Difficile non aspettarsi, poi, qualcosa di astrattamente novecentesco; invece – che coup de théâtre! – Kissin termina, spagnoleggiando, con Albéniz e Larregla. Dopo il tenue ma opprimente psicologismo di Brahms, l’espagnolerie di Albéniz chiude il tutto con quella passione per l’esotismo che ammaliò la borghesia mitteleuropea: antologia da Suite española e Cantos de España. Kissin fa risuonare, liberi, gli eterei arpeggi, l’evocativa atmosfera chitarristica di Granada, la sensualità di Cadiz, la soffusa trama notturna dell’erotica danza di Cordoba, il dionisismo percussivo di Asturias. Il russo ci riporta nei salotti e nelle sale da concerto della Parigi al tramonto del secolo: risplendeva il crepuscolo della Belle Époque. A finire, il brillante, spumeggiante Viva Navarra! del meno noto (e più ricercato) Larregla. Scoppiano fragorosi gli applausi: l’ovazione – iniziata alla fine del primo tempo – è più forte che mai. Kissin, accennando un sorriso, regala ancora quattro bis (fra cui il suo oramai famoso arrangiamento della prima delle Danze Ungheresi di Brahms), per prepararsi alla fila di ragazzi, giovani pianisti, che lo aspetteranno all’uscita artisti per gli autografi ai loro spartiti e cd, non senza le consuete foto.