Classicismo al quadrato
di Alberto Ponti
Serata al vertice con il binomio Mozart/Beethoven
TORINO, 16 dicembre 2016 - Non esistono pagine in grado di evocare nell’immaginario collettivo la quintessenza del classicismo in musica più della serenata Eine Kleine Nachtmusik K 525 (1787) di Wolgang Amadeus Mozart (1756-1791), lavoro di miracolosa e leggiadra inventiva melodica, dove i fraseggi degli archi, come scie luminose, si rincorrono in un dialogo che si vorrebbe non avesse mai fine.
L’interpretazione di James Conlon, in apertura del nono concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica della Rai giovedì 15 e venerdì 16 dicembre, spigliata e baldanzosa, è allo stesso modo lontana dai noiosi rigori filologici in cui si vorrebbe rinchiudere la musica settecentesca così come dall’esasperazione dei presunti aspetti preromantici di un autore che, nell’universalità della creazione, trascende la sua epoca. Il direttore americano ci restituisce un Mozart dai contrasti accentuati, anche a costo di sporadiche ruvidezze, soprattutto nei brillanti movimenti estremi, ma all’interno di un quadro di grande equilibrio timbrico e di convincente personalità.
Queste caratteristiche rimangono intatte anche nel pezzo successivo: il concerto per pianoforte e orchestra K 271 in mi bemolle maggiore (Jeunehomme-Konzert), composto nel 1777 in occasione del passaggio a Salisburgo della pianista francese da cui l’opera prende il nome (e che studi molto recenti hanno chiarito in realtà trattarsi di Victoire Jenamy). Il solista Jonathan Biss, nato nel 1980 negli Stati Uniti da una famiglia di musicisti (la nonna fu la violoncellista russa Raya Garbusova mentre la madre è la violinista Miriam Fried), con la celebre entrata in medias res, apparsa inaudita ai contemporanei dell’autore, dimostra da subito una sensibilità di rara finezza, supportata da una tecnica talmente sicura e naturale (a tal punto da affondare con nonchalance, specie nei tempi veloci, qualche pedale di troppo) che fa apparire semplice ogni passo di uno tra i più ambiziosi e virtuosistici concerti mozartiani. L’intesa con Conlon sul podio trova il suo apice nell’Andantino centrale, nel quale il gioco sublime del grande salisburghese incide un incanto fuori dal tempo nel marmo di un do minore venato di brividi metafisici.
Con la Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36 (1800-02) di Ludwig van Beethoven (1770-1827) irrompe invece il furore razionalista di chi, pur sentendosene ancora un figlio, si avviava a liquidare in modo definitivo il Settecento. La partitura è percorsa da cima a fondo da un’inarrestabile pulsione costruttiva, dall’Allegro con brio iniziale con il secondo tema ispirato ai canti rivoluzionari francesi al capriccioso e imprevedibile Larghetto, dallo Scherzo già liberato dalle convenzioni dei vecchi minuetti all’umoristico finale dove il genio di Bonn pare addirittura anticipare quel Rossini che nel giro di pochi lustri avrebbe conquistato i viennesi.
Conlon dirige a memoria divertendosi moltissimo, staccando tempi sostenuti con somma attenzione al bilanciamento dei piani sonori: gli ottoni sono squillanti ma non invadenti, gli arabeschi dei legni scivolano con incisiva eleganza, gli archi tutti cingono la platea con un caldo abbraccio che sale dalle profondità dei contrabbassi per approdare alle vertiginose corse dei violini nei loro registri più acuti.
Gli applausi scroscianti per tutti i protagonisti della serata sono interrotti solo dal direttore, alla sua ultima apparizione torinese del 2016, per gli auguri di buone feste in un italiano impeccabile e per il ricordo del ‘compleanno’ di Beethoven che cade proprio il 16 dicembre.