Tosca per prospettiva e clarinetto
di Francesco Lora
Alla Staatsoper di Vienna, l’opera di Puccini compie la sua 568ma recita nello storico allestimento della Wallmann. Il canto è routine a dispetto di nomi come quelli di Terfel, Giordano e Serafin, ma il virtuosismo delle scene dipinte e la qualità dell’orchestra residente colpiscono ancora
VIENNA, 19 gennaio 2014 – Alla Staatsoper di Vienna, dove la stagione d’opera e balletto si fa con decine di titoli, ‘routine’ è un concetto assodato e una parola non troppo brutta. Gli allestimenti scenici sono ripresi per anni se non per decenni, costituendo tuttavia un caveau di buon repertorio visivo. I cantanti arrivano all’ultimo momento, con prove poche o nulle, ma in tal modo possono rendersi disponibili nonostante un’agenda già fitta. E i direttori, anch’essi scendendo nel golfo mistico senza prove, possono contare su un’orchestra e un coro con tale esperienza da puntare essi al giusto segno prima che sia la bacchetta a condurveli. Beninteso, ciascuno spettacolo, e anzi ciascuna recita, imprevedibile poiché poco preparata, deve essere valutata a sé, e il rovescio della medaglia può venir fuori come giocando a testa o croce. La taccia più frequente è quella di disomogeneità, avvertibile soprattutto nella compagnia di canto. Un esempio lampante è venuto da tre recenti recite della Tosca di Puccini (17, 19 e 22 gennaio), dove i tre personaggi principali, distribuiti a interpreti d’estrazione incommensurabile, parevano venuti da tre opere diverse, ed essersi dati appuntamento nella terra di nessuno.
La star della serata doveva essere il baritono gallese Bryn Terfel, beniamino del pubblico viennese e osannato in mezzo mondo: e infatti gli sono piovute ovazioni spropositate. Pure, a ben ascoltare e a ben guardare, ossia a intendere oltre la superficie dell’appeal massmediatico, il suo Scarpia è da far cascare le braccia. Due sono le vie per affrontare il personaggio: quella del barone di alto lignaggio e figlio dell’ancien régime, uomo infame ma gran signore nei modi, e quella del barone di nobiltà recente e figlio della brutalità coltivata nella polizia; in entrambi i casi, sempre di un barone si tratta, e di una persona calcolatrice, e di un personaggio da calcolare. Né l’una né l’altra via in Terfel. Il canto è un urlo dalla prima all’ultima battuta, al punto che il bel timbro si ingrigisce rapidamente, e lo sforzo fiacca presto anche il volume esuberante, dono di natura non imbrigliato da una pari tecnica. L’attore prosegue lo smantellamento di questa parte superba: questo Scarpia ridanciano e manesco, senza traccia di calcolo e nobiltà reali o perseguiti o qualunquemente declinati, con lo stesso tovagliolo si forbisce la bocca e s’asciuga il sudore, e sottolinea con enfasi parole a caso del libretto, per dare a un pubblico non italofono l’illusione uditiva d’averne compreso il senso. Scatena allegria anziché terrore. Lascia avviliti.
Si passa quindi a Massimo Giordano, il quale ebbe un notevole picco di carriera poco dopo il 2000, in un repertorio da tenore lirico-leggero ove poteva far valere il suo lieve peso vocale e la sua naïveté da Nemorino. Ma la Tosca non è L’elisir d’amore, e passare da Nemorino a Mario Cavaradossi, mentre i segni del declino professionale cominciano a farsi evidenti, è un azzardo anziché una soluzione. In odore di captatio benevolentiae, Giordano gioca a fare l’italiano secondo lo stereotipo viennese: ed ecco allora un Cavaradossi che a ogni occasione manda alla sua Floria serie di tre bacetti con lo schiocco, e che fa gesti da operetta per illustrare quanto volentieri si sia liberato di quella donna gelosa. Ma la statura eroica manca affatto, così come manca la sostanza vocale per reggere le sezioni più tese e drammatiche, e per dare i colori ai grandi abbandoni melodici degli atti I e III. In tutto questo, la Tosca di Martina Serafin canta tutto con voce ferma e luminosa e recita fedelmente secondo didascalia, ma si chiude in una sorta di monologo straniato, come se non ci fosse interazione con l’amante e con l’aguzzino, e nessun ricordo di questa serata viene da lei lasciato nella mente dell’ascoltatore.
Ricordi ammirati o entusiastici, per contro, sono lasciati dall’allestimento scenico e dall’esecuzione strumentale. Ciò che si vede è il museale spettacolo firmato da Margherita Wallmann nel 1958 e giunto ora alla sua cinquecentosessantottesima recita viennese: con tutta la polvere che vi si può essere depositata sopra, le scene di Nicola Benois sbalordiscono ancora per virtuosismo prospettico su superfici dipinte, in particolar modo nell’agile eppur realistica ricreazione della chiesa di S. Andrea della Valle. E non si finirà mai di lodare le virtù dell’Orchestra della Staatsoper, che quando ne ha voglia sa cantare come nessun’altra: sospettosa verso direttori di maggior blasone, essa segue invece con dedizione il gesto di Paolo Carignani, e gli risponde con sensuale involo d’archi, scoppi raggelanti negli ottoni e un assolo di clarinetto che, in «E lucevan le stelle», toglie il respiro per estenuata mollezza e vale da solo il viaggio a Vienna.