Una Lucia critica
di Giuseppe Guggino
Il ritorno di Lucia di Lammermoor al Massimo di Palermo per la terza volta in tredici anni, ancora una volta nel rodato allestimento di Gilbert Deflo, vede la novità del ricorso all’Edizione critica di Roger Parker e Gabriele Dotto. Nella realizzazione complessiva si segnalano la presenza dell’armonica a bicchieri nella scena della pazzia, il riuscito debutto nel ruolo di Edgardo di Giorgio Berrugi e la magnifica prova del basso Luca Tittoto. Solida la direzione di Riccardo Frizza.
Palermo, 30 marzo 2016 -La scelta dell’edizione critica di Casa Ricordi e della Fondazione Donizetti per questa terza ripresa palermitana dell’ormai noto allestimento di Lucia affidato al tandem Deflo-Orlandi offre l’occasione per una riflessione sulle questioni filologiche legate ai melodrammi del primo Ottocento, che anche in altre circostanze, hanno suscitato qualche rilievo critico nella nostra testata. Per i non addetti ai lavori le cosiddette “edizioni critiche” rivedono una partitura sulle fonti originali (o su fonti derivate altrettanto autorevoli) fissandone un testo principale e un più o meno ampio ventaglio (a seconda dell’opera) di micro o macro varianti storicamente testimoniate. Nello specifico caso di Lucia di Lammermoor l’edizione critica ripristina l’armonica a bicchieri per la scena della pazzia (No. 8) sebbene la parte già alla prima assoluta – per ragioni tutt’altro che artistiche – fosse stata affidata al flauto, vi elimina una lunga cadenza posticcia di tradizione (quella che Gianandrea Gavazzeni appellava non senza un certo condivisibile sprezzo “pifferata”), ne ripristina o quantomeno ne rende possibile la tonalità più acuta, al pari di quanto avviene nell’aria di sortita di Lucia (No. 2) e nel duetto Lucia-Enrico (No. 4) oltre a proporre il testo nell’assoluta integralità con dettagli di orchestrazione e sulle singole linee melodiche rivisti rispetto alle lezioni assestatesi nell’edizione a stampa “di tradizione”.
Nel declinare un’edizione critica in sede di spettacolo è evidente come essa, per sua natura di carattere “iper-testuale”, richieda evidentemente delle scelte, in quanto tali, legittimamente affidate agli artefici dello stesso. Ben lungi dalla smania di integralità che si tramuta in esagerato integralismo, si può praticare anche con le edizioni critiche qualche taglio di da capo, senza nessuno scandalo, così come le varianti rispetto al testo tradizionalmente sedimentato possono essere più o meno accolte (laddove il testo di tradizione sia comunque storicamente giustificato, beninteso). Però nel caso di queste recite non si può non rilevare come le scelte estetico-pratiche si siano nei fatti discostate ben poco da un’esecuzione tradizionale antecedente gli studi di López-Cobos, Mackerras, Parker e Dotto, giacché molto poco oltre il vezzo dell’armonica a bicchieri – ben suonata da Sascha Reckert – sembra essere accolto in quanto ascoltato.
Sia detto subito che Riccardo Frizza è direttore di solido mestiere, capace di ottenere buoni risultati da Orchestra e Coro residenti; anche nell’uso delle forbici, in linea di massima, opera con coerenza, sebbene troppo pesantemente. Viceversa, a fronte dei tagli praticati (moltissime code e molti da capo) non ci si può non chiedere quale senso abbia avuto il ricorso al testo critico se poi all’inizio del terzo atto si riscontra la macroscopica mutilazione dell’intera scena della Torre di Wolfcrag dove Edgardo ed Enrico si sfidano a duello. La domanda si ripropone allorquando ci si imbatte nei numeri 2, 4 e 8 in versione tradizionalmente “abbassata” quando invece l’edizione critica renderebbe possibili le tonalità originali, consentendo così di sollecitare in misura minore il registro grave di Elena Mosuc, collaudatissima Lucia in giro per il mondo negli ultimi vent’anni che, nelle condizioni attuali, fatica non poco nei do gravi della sortita (su «L’ombra mostrarsi» e su “Di sangue rosseggiò”); così come ancora le tonalità dell’autografo avrebbero certamente impedito l’aggiunta delle tradizionali puntature all’acuto risultate per la verità tanto ingloriose nella pazzia, quanto velleitario è il fraseggio con un legato faticoso quale quello ascoltato in “Soffriva nel pianto”, caratterizzato anche dall’interpunzione decisamente vilain di Marco Caria nei panni del fratello Enrico.
I momenti buoni di questa produzione vengono dall’Edgardo di Giorgio Berrugi (ma sulla carta anche Jean-François Borras dovrebbe poter fare un grande Edgardo in secondo cast) e dal Raimondo di Luca Tittoto. Il primo capitalizza essenzialmente il suo strumento naturale di bellezza non indifferente, il secondo è semplicemente strepitoso per la capacità tecnica di gestire come meglio non si potrebbe una voce di autentico basso con nobiltà d’accento, varietà di fraseggio e omogeneità di tutti i registri: chapeau!
Abbastanza soddisfacenti sono sono sia Emanuele D’Aguanno come Arturo che il Normanno di Francesco Pittari; collaudata è l’Alisa di Patrizia Gentile, al pari dell’allestimento di Deflo: artigianato teatrale fra ogive Tudor, chiaroscuri antracite, costumi ottocenteschi, ci si augura questa volta in ultima riproposizione.
foto Rosellina Garbo