Tu vuo’ fa’ l’americano
di Pietro Gandetto
Dopo oltre novant'anni di oblio, ritorna alla Scala una nuova produzione della Cena delle beffe di Umberto Giordano. Efficaci la regia di Mario Martone e la concertazione di Carlo Rizzi. Buono il contributo di quasi tutto il cast.
MILANO, 3 aprile 2016 - Come la prima del 20 dicembre 1924, costellata da star del calibro di Arturo Toscanini, Carmen Melis (l’insegnante di Renata Tebaldi, per intenderci) e Hipolito Lazaro, anche in questa ripresa scaligera della Cena delle beffe, il cast è composto da illustri nomi del panorama operistico: da Mario Martone a Carlo Rizzi, da Margherita Palli a Marco Berti, Nicola Alaimo e Kristin Lewis. Sempre in tema di analogie, quasi novantadue anni dopo il successo della “nuovissima” Cena (così, testualmente, la locandina del ’24) anche l’altra sera al Piermarini si registra un discreto successo.
Lo spettacolo funziona. Mario Martone sposta la mise en place della Cena delle beffe dalla Corte dei Medici alla Little Italy newyorkese degli anni ’20 (quella originale di Harlem, non la Lower Manhattan odierna). Una traslazione che diremmo ben riuscita, sol che si consideri che in quell’epoca fu composta l’opera (1924) e in quel contesto sociale attecchirono i valori che accomunano i protagonisti dei drammi veristi ai gangster italo-americani. Violenza, gelosia, faide sociali, sfrontato maschilismo e sesso. Un sesso accennato, pur con scarsi effetti scenici, nello specifico (come la masturbazione simulata di Cintia). Questi gli ingredienti. Il semplice plot trova nell’impietoso mitra finale della candida Lisabetta un cout de théâtre in perfetto stile La Piovra - che diverte e lascia tutti a bocca aperta.
Margherita Palli concepisce efficaci scene a scorrimento, dove i tre livelli di un unico block si alternano in sezioni architettoniche nelle quali il pubblico vede l’interno in stile casa delle bambole: la prima sezione è il ristorante del boss Tornaquinci, ove si scontrano i clan di Giannetto quello dei Chiaramantesi; la seconda è il boudoir di Ginevra, sede di amori e morti; la terza è il sottoscala dell’edificio, dove Neri è prigioniero.
Come detto, l’opera di Giordano è frutto di una sperimentazione artistica che nei primi decenni del ‘900 metteva in discussione gli stilemi classici del melodramma in favore delle contaminazioni co il teatro di prosa e il cinema. E invero i riferimenti cinematografici trovano terreno fertile in questa produzione (vedasi il ristorante del Padrino, la camera di Vertigo e i combattimenti da Gangs of New York), ma non disturbano e anzi divertono, perché suppliscono alla “debolezza” della partitura di Giordano e del libretto di Sem Benelli. Quanto alla musica, pur con passaggi di ampio respiro melodico e d’ispirazione post pucciniana che ben funzionano (cfr. il duetto Giannetto-Ginevra del II atto), la scrittura vocale è scomoda, ma soprattutto debole sotto il profilo del sostegno drammaturgico e risulta quindi a tratti di difficile godimento. Nel libretto di Benelli, poi, non si risparmiano espressioni da facile sensazionalismo che fanno oggi ridere, più che sorridere (su tutte, il “me l’hai goduta” del secondo atto). E allora è qui che l’elemento cinematografico interviene e sorregge il materiale, diventando punto di forza e non mero elemento di debolezza.
La concertazione di Carlo Rizzi si palesa corretta ed esente da vizi stilistici e musicali, là dove leggesi un’esaltazione delle pagine tardoromantiche di Giordano e delle morbidezze armoniche dissonanti di cui questa partitura è ricca. Una direzione asciutta che rifugge la noia, anche nei passaggi più melensi e sdolcinati.
Passando al cast vocale, Marco Berti si destreggia abilmente nell’impervio ruolo di Giannetto Malespini, che si sviluppa in larga parte sulle note del passaggio e non risparmia scomodissime frasi che si susseguono in escalation verso acuti vertiginosi. L’ingente impegno vocale del personaggio viene governato con sapienza dal tenore, che dà prova di possedere un registro acuto penetrante e ben timbrato.
Altrettanto valido il contributo di Nicola Alaimo nei panni di Neri Chiaramantesi. Emissione sicura e agile e fisicità prorompente gli consentono di dar vita a un personaggio convincente. Neri è tutto intento a imporre al mondo la propria autorità da boss mafioso. Ma nella sua rozzeria e goffaggine resta vittima delle macchinazioni del rivale e uccide il fratello credendolo Giannetto.
Meno bene, invece, la Ginevra di Kristin Lewis. Nonostante i prestigiosi ruoli ultimamente ricoperti, ancora manca la dovuta cura all’articolazione della parola e della linea musicale. Gli acuti risultano privi di controllo e morbidezza. Sotto il profilo scenico, il soprano americano è parso a suo agio nelle scene più truci e violente, ma è mancato quel fascino decadente e quella morbidezza soffusa che un personaggio come Ginevra – su cui converge il peso dell’evoluzione stessa dell’eroina romantica – si crede dovrebbe avere.
Degno di nota il contributo del soprano palermitano Jessica Nuccio al suo debutto scaligero. Voce di bel colore, emissione morbida e linea del canto omogenea. Una Lisabetta innamorata del suo Neri, tutta casa e chiesa, ma che sul finale tira fuori delle belle sorprese.
Completano il cast la valida Cintia di Chiara Isotton, Leonardo Caimi nei panni di Gabriello, Luciano Di Pasquale il Tornaquinci, Giovanni Romeo Calandra, Frano Lufi Fazio, Francesco Castoro Il Trinca, Bruno de Simone il Dottore, il Lapo di Edoardo Milletti, Chiara Tirotta quale Laldomine, e Federica Lombardi Fiammetta.
Corali consensi a fine serata per tutto il cast.
foto Brescia Amisano