La bontà in trionfo
di Giuseppe Guggino
È un vero e proprio trionfo quello che il pubblico palermitano tributa a Chiara Amarù nei panni dell’Angelina rossiniana; ugualmente salutati con punte di ovazioni sono René Barbera, Paolo Bordogna e la concertazione di Gabriele Ferro. Il pubblico apprezza anche lo spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti, per la verità complessivamente meno meritevole, sebbene non privo di idee riuscite.
Palermo, 24 aprile 2016 - Fu proprio come Angelina che Chiara Amarù spiccò il volo con alcune recite al Comunale di Bologna nel 2011 (dopo aver debuttato il ruolo nel Circuito Lombardo) ed è nel medesimo ruolo che conquista il favore incondizionato del pubblico di Palermo, sua città natale. Al personaggio di Angelina sa donare il suo prezioso timbro madreperlaceo, l’intonazione ineccepibile, un fraseggio sempre partecipe, delle sbalorditive agilità (se eseguite in rapidità); e se all’uso scaltro del canto fiorito di glottide in futuro riuscisse ad accostare anche qualche agilità legata probabilmente non ci sarebbe storia per nessun’altra Angelina (di ieri e di oggi)! In scena ne viene fuori una Cenerentola dolcissima, con vertici di poesia disseminati per tutta la serata a partire dal duetto con Ramiro e fino al funambolico finale. Dal canto suo il Ramiro di René Barbera ne è degnissimo pretendente, forte di una voce con punta luminosissima (anzi, che può concedersi anche qualche aggiunta ai temibili Do scritti), duttile nelle agilità e freschissima nel timbro: insomma una vocalità da tenore contraltino perfetto per Rossini, tanto preziosa che sarebbe delitto se si sprecasse in altri ambiti.
Né le cose piacevoli all’udito di questo cast si esauriscono qui, giacché Paolo Bordogna – reduce da un bel Dandini in quel di Torino – ritorna qui al suo cavallo di battaglia che è Don Magnifico, già affrontato infinite volte, eppure sempre vocalmente curato, anzi arricchito di qualche inusitata appoggiatura a testimoniare l’attenzione e la musicalità di un artista capace nella tanto difficile quanto irresistibile sintesi fra solidità vocale e presenza scenica debordante.
Del Dandini di Riccardo Novaro non dispiacciono le agilità forse non rapidissime ma pur sempre corrette oltre che l’omogeneità di sonorità dall’insidioso Si bemolle grave a voce fredda fino Fa acuto della sortita.
Oltre le simpatiche sorellastre di Marina Bucciarelli e Annunziata Vestri la compagine di solisti prevede l’Alidoro di Gianluca Margheri – promosso in corsa dal secondo al primo cast – che nelle intenzioni mostra buona consapevolezza delle difficoltà del ruolo, specie nella temibile aria di mano rossiniana, però non sempre pienamente risolte (la messa di voce su quel Mi bemolle che apre l’aria e tutte le serie di terzine non molto agguerrite della seconda parte ne sono le cartine di tornasole), sicché ci si rammarica per non aver ascoltato – una volta tanto – la più abbordabile aria di Luca Agolini scritta per la prima assoluta dell’opera.
Dalla buca – impropriamente detta, giacché per l’occasione l’Orchestra del Massimo suona al livello della platea, con qualche piccolo problema di bilanciamento delle sonorità – vengono grandi risultati dalla concertazione del maestro Gabriele Ferro che con l’opera vanta una frequentazione ultratrentennale (tre edizioni solamente a Palermo dagli anni ’70 ad oggi, senza citare l’incisione discografica Sony con strumenti d’epoca che ha fatto storia), così come ultratrentennale è la sua frequentazione col Rossini serio che giustamente gli piace far trasparire in una partitura larmoyante e quindi non relegabile esclusivamente al buffo. Per convincersi della coerenza di questa prospettiva basterebbe soffermarsi sulla varietà con la quale fa suonare agli archi quelle prime sei battute del recitativo accompagnato che introduce l’aria di Alidoro o ancora il recitativo accompagnato che precede l’aria di Ramiro, per non fare che appena due esempi. La simbiosi instauratasi con l’Orchestra di cui è direttore musicale – ottimi i legni (a parte un ottavino un poco troppo protagonista) e gli archi acuti – e il livello intrinseco della compagine stessa gli consentono poi il lusso di ridurre il gesto a qualche suggerimento minimalista di dinamica, ché tutto sembra procedere in perfetta autonomia, almeno quando anche sul palcoscenico si ritrovi un cast di professionisti, come in questa recita; sicché anche un mancato attacco dei violini primi nel secondo atto passa assolutamente inosservato fra reciproche risate di complicità. Ugualmente compatto e in sintonia con l’insieme si mostra anche il Coro maschile del Teatro diretto come sempre da Piero Monti.
Note non così positive vengono dalla parte visiva dello spettacolo affidata a Giorgio Barberio Corsetti che ricorre all’autocitazione della “sua” Pietra del paragone di una decina di anni or sono. Se però la tecnica del chroma key (a parte qualche problema di ricentraggio delle proiezioni all’inizio dell’opera, ben realizzata da Igor Renzetti, Lorenzo Bruno e Alessandra Solimene su scene di Corsetti co-firmate da Massimo Troncanetti e luci di Marco Giusti) in quel caso era stato l’asso nella manica per una risoluzione estremamente varia di ambienti dell’indeterminatezza scenica del libretto di Romanelli, alle prese con la prefissata e perfettamente congeniata drammaturgia ferrettiana rischia di risultare troppo invasiva quand’anche controproducente zavorra se – specie nei concertati – si ritrova a proiettare silouette, insignificanti foglie gialle o centinaia di occhi nel “nodo avviluppato”.
Non mancano però i momenti azzeccati dove non viene meno il connubio con la musica; ne sono esempio i primi piani estasiati di Angelina e Ramiro nel loro duetto o quelli nei quali si offre a Bordogna la possibilità di fare teatro solamente con un’occhiata e una mimica del volto che non sfigurerebbe al cospetto di Totò. Il far recitare i solisti puntando una telecamera anziché il podio, almeno in questo caso, non pare essere fonte di problemi di sincronia, ma lo è certamente per la gestualità necessariamente appiattita alla bidimensionalità cinematografica, sebbene l’aria di Alidoro cantata in veste di chirurgo plastico e risolta con la divertente trasformazione del fisico di Angelina scomposto in tre pezzi nelle proiezioni e gradualmente rivestito, o il ribaltamento della carrozza (o per meglio dire dell’automobile) nel secondo atto siano vere e proprie frecce all’arco di questa produzione. Anche la smania di attualizzazione sembra un po’ caricata con il ricorso all’onnipresente tablet, sia in mano ai coristi sia come libro delle zitelle, al pari della realizzazione dei costumi non sempre congrua (Angelina non può dire “guardando i stracci vostri e i stracci miei degna d’un Padre tal figlia sarei” con un abitino giallo tutto perfettino). Ciò nonostante il pubblico sembra comunque apprezzare la cifra estetica hi-tech e il linguaggio da sit-com americana, chissà se perché realmente efficace o per la perfezione intrinseca del libretto di Ferretti, così come saluta tutto i solisti con applausi convinti e punte di ovazione per Ferro, Bordogna, Barbera e la Amarù, che ci si augura di ritrovare radunati nell’Italiana in Algeri in via di progettazione in quel di Palermo per la prossima stagione.
foto Rosellina Garbo