L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il trittico all'Opera di Roma

Reductio ad unum

 di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma, ancora in una co-produzione (con Copenaghen e Vienna) – eccellente quella del recentissimo Benvenuto Cellini –, presenta Il Trittico di Giacomo Puccini, che manca dal maggior teatro romano da quattordici anni. Lo spettacolo rimane impresso soprattutto per la particolare e a suo modo geniale regia di Damiano Michieletto, volta a intrecciare in fili inestricabili i tre spettacoli pensati e concepiti da Puccini come tre atti assoluti, del tutto sciolti: da un trittico, un polittico, a un unico organismo teatrale, un’operazione di reductio ad unum, appunto. Il cast è all’altezza, sia sul piano vocale che, soprattutto, su quello della recitazione: Roberto Frontali e la Racette, in particolar modo, ottengono un grande successo personale. Ottima la direzione di Daniele Rustioni, che sa trarre il meglio dalle partiture.

ROMA, 21 aprile 2016 – Opera (o varrebbe meglio dire opere?) rara e catartica, Il Trittico di Giacomo Puccini è un capolavoro tale da far ridere e piangere nella stessa serata. Una compressione di umanità verissima e paradigmatica. C’è tutto: l’amore, la gelosia, la perdita, la solitudine, i rapporti famigliari e di società, le loro costrizioni e perversioni. Puccini recupera, comprimendolo, quel senso olistico della vita che i Greci esprimevano nei loro festival tragici, quando mettevano in scena tre tragedie racchiudenti e concludenti un mito, un personaggio, una storia, cui facevano seguire una divertente appendice, rilassante, per sollevare gli animi commossi e turbati dalle vicende del mito. Vicende mitiche sì, ma pur sempre umane: troppo umane. Il Trittico, in tal senso, è un’opera di vero sadismo. Di sadismo emotivo/sentimentale si è molto parlato in Puccini: Madama Butterfly ne è un esempio perfetto. Non si riesce quasi a vederla (o ascoltarla) senza dirompere in pianto. Non commuoversi, eh: qui si tratta di piangere. Già, perché questi tre «atti vari, teatrali animati da tutte le corde sensibili – piccoli atti – di dolci e piccole cose e persone», come lo stesso Puccini scriveva a D’Annunzio, hanno in loro potenti sentimenti, strazianti (Suor Angelica), terrificanti (Tabarro) ma anche goliardici, a lieto fine diremmo (Gianni Schicchi).

Il Teatro dell’Opera di Roma ha calibrato perfettamente questa stagione: dopo un eccellente Cellini ecco un bellissimo Trittico. Due opere purtroppo poco rappresentate (per motivi disparati), che meriterebbero maggiore attenzione; con due co-produzioni l’Opera di Roma regala al pubblico romano e italiano in toto due spettacoli meritevolissimi. Ho lodato Terry Gilliam. Damiano Michieletto non è certo da meno, proponendo una spettacolarità diversa, a tratti discutibile, ma certo originale e soprattutto sempre presente a sé stessa. È raro trovare, oggigiorno, un regista teatrale e d’opera presente a sé stesso: le idre del narcisismo, che porta a non guardare al nòcciolo dell’opera ma a proporne una visione spettacolarmente superficiale, e del “concettosismo” estremo, che finisce per non analizzare niente a fondo. Michieletto – per fortuna – non indulge in nessuna delle due derive, pur tradendo Puccini, ma per spirito di ricerca e novità. Tradisce Puccini legando genialmente ciò che nacque sciolto. Lo tradisce, poi, soprattutto in Suor Angelica, la più ardita delle tre mise en scène. Ma andiamo per ordine. Nel Tabarro, Michieletto chiede al suo scenografo Paolo Fantin di portarci all’interno di un molo portuale: una sinistra prospettiva accidentale ci porta fra dei container. L’attualizzazione è calzante: il popolo della strada parigino, la plebe che si spacca la schiena per il lavoro, è calato in un presente realisticamente confacentesi alla situazione di tanti schiavi del mare. Carla Teti attualizza tutti i costumi: Frugola, in particolare, è una colorita accattona. La tragedia si consuma: Giorgietta s’innamora del bel Luigi, per dimenticarsi del suo dramma famigliare, di Michele e del loro figlio morto. Le scarpette del figlioletto…le stesse che Suor Angelica serba nella sua cella (Michieletto dichiara che la maternità è il fil rouge più forte tra i molti presentati). Giorgetta diviene Suor Angelica. Il dolceamaro convento si trasforma in un istituto di reclusione, dove donne malate, folli o impazzite, sono rinchiuse. Con spirito arguto e anticlericale Michieletto trasforma un convento in un istituto di reclusione che tanto deve a quelli psichiatrici: le immagini e i sogni delle diverse suorine divengono nella metafora di Michieletto le allucinazioni di donne fuori di senno. Suor Angelica stessa riceve la visita della zia principessa, che le tiene nascosto il bambino, fingendo che sia morto. Questo grande tradimento del libretto da parte di Michieletto affascina e non poco diegeticamente, aprendo la strada a una serie di azioni allucinate: Suor Angelica vede alcuni bambini (vari doppelgänger di suo figlio), che si spogliano lasciando vesti che poi lei getterà alla rinfusa. La climax della tragedia s’impenna: Suor Angelica arriverà addirittura a darsi la morte prima col veleno e poi tagliandosi le vene, mentre strappa foto di riviste, affisse al muro, che ritraggono la Vergine. (Anche Luigi, nel Tabarro, s’era fatto un taglio sulla mano, il rubino di sangue per Giorgetta: i fili e i rimandi cominciano a intrecciarsi). Le atmosfere dolcemente decadenti, pascoliane delle suorine indaffarate nelle loro appartate vite, sognanti una libertà che non avranno mai, non seducono Michieletto. La commozione è tanta, ma forse la sua Suor Angelica è il meno riuscito dei tre quadri. Gianni Schicchi è un tripudio di colori e di umanità. La casa di Buoso Donati è un’accozzaglia di mobili e di scale; in quest’ambiente escheriano si muovono personaggi dipinti con pennellate decise. In Rinuccio e Lauretta non facciamo fatica a riconoscere i due amanti che si baciavano fra le prostitute del trasfigurato molo della Senna: i loro costumi sono uguali. A inganno compiuto, Gianni Schicchi muta in Michele: torniamo al Tabarro, «con licenza del gran padre» Puccini. Rinuccio già sopraffà sul letto Lauretta, che aveva messo già incinta. L’ennesima storia di violenza si sta già scrivendo: le donne ne sono, nella visione michelettiana, le eterne vittime. Michieletto, certo, se non coglie la lettera di Puccini, ne coglie almeno l’essenza: un pessimismo vagamente sfumato dalla comicità insita nell’essere umano.

Una tale impresa scenica sarebbe stata vana senza degni cantanti/attori, capaci di doti fra le più diverse. A dirigere il tutto v’è Daniele Rustioni, ottima mano, che riesce a accompagnare bene l’evolversi delle trame e le voci, cogliendo la cifra musicale di ogni partitura: l’atmosfera torbidamente statica, accesa d’improvvise nevrosi del Tabarro; quella sacralità immobile, aerea (presa di peso dalle scene wagneriane del Graal del Parsifal), resa con incomparabile intimità; la frizzante, borghese, arguta Firenze dantesca, colta in un’umanità che conosce solo la vita (e l’amore). Per sostenere una regia del genere devono esserci cantanti in grado di essere ottimi attori. Su tutti troneggia Roberto Frontali (Michele–Gianni Schicchi): voce pienissima, squillante, omogenea, profonda, espressiva, scura ma anche in grado di produrre le dovute leggerezze in Schicchi. Nel Tabarro Frontali incarna con un canto franto e carico di geloso risentimento il monologo finale di Michele, riuscendo impressionantemente teatrale; allo stesso modo, ha un recitar cantando leggero e sfrontato nell’interpretazione di Gianni Schicchi. Per lui grandi applausi: un successo personale di livello assoluto. Del pari contenta della sua performance dev’essere Patricia Racette (Giorgetta– Suor Angelica). Riesce infatti a incarnare una Giorgetta sensuale, mai superficiale, realmente distrutta dalla vita, una vita di tristezza, il cui unico balsamo è il suo Luigi e la speranza di un nuovo inizio («È ben altro il mio sogno!»). Ma è forse in Suor Angelica che lascia veramente il segno: il suo «Senza mamma» non deliba le ineffabili dolcezze eteree d’una Ricciarelli (paradigmatica l’edizione del 1973), o della Scotto, della Tebaldi, ma è più straziante, quasi un grido represso, un soffocato pianto, che poi sfoga nel suicidio finale. Il Luigi di Maxim Aksenov è teatralmente riuscito, meno vocalmente: Aksenov ha il perfetto physique du rôle, anche se si fa troppo trascinare dal personaggio arrivando a sfibrare la voce in taluni passaggi. Anna Malavasi (Frugola–La Badessa–La Ciesca), dalla voce piena, delicatamente brunita, canta perfettamente tutti i suoi ruoli, riuscendo insuperabile in Frugola. Eccellente il cammeo di Violeta Urmana in un ruolo che le consente di sfoderare la sua natura da mezzosoprano dal nobile fraseggio, qui perentorio nel ruolo della zia principessa. Un po’ imbalsamata la Lauretta di Ekaterina Sadovnikova, sia teatralmente che vocalmente: «O mio babbino caro» riesce sottovoce e incolore, non rendendo giustizia a una perla musicale senza eguali. Antonio Poli (uno dei due amanti–Rinuccio) canta un Rinuccio fresco e dal fraseggio perfetto: la sua aria «Avete torto!», sebbene non sempre a volume consono, scorre fresca come l’acqua, così come gli ariosi duettini con Lauretta. Ottimi tutti i comprimari e il coro dell’Opera di Roma. Un plauso particolare all’orchestra, che ha saputo rendere magnificamente quella pasta tripudiante di nuances che è l’orchestrazione del tardo Puccini. Il Trittico è la sintesi di tutta l’arte pucciniana, quint’essenza palpabile di ogni sua movenza.

foto Yasuko Kageyama


 

 

 
 
 

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