L’arte del Barbiere
di Francesco Lora
Il Barbiere di Siviglia secondo Morassi e Crisman migliora sempre più con gli anni e incontra interpreti ideali in una locandina quasi tutta italiana: tanto analitico quanto sferzante il direttore Montanari, ed eccellenti tra tutti la Amarù, Scandiuzzi, l’altro Montanari e la Donadini.
VENEZIA, 22 maggio 2016 – Qualcosa di molto simile all’immortalità esiste anche dopo Jean-Pierre Ponnelle: l’allestimento del Barbiere di Siviglia di Rossini con regìa di Bepi Morassi e scene e costumi di Lauro Crisman è nel patrimonio del Teatro La Fenice da diversi lustri, ma anziché mostrare le rughe sembra ogni anno migliorare come il vino. Un vero balsamo è ritrovarlo in scena per otto recite, dal 7 maggio al 7 giugno, mentre al Teatro Comunale di Bologna è in programma la stessa opera in una produzione da dimenticare [leggi la recensione]. Sotto le due torri si assiste a una farsa involgarita, ripensata per il pubblico greco che non comprende l’italiano e vuol ridere di gesti sciocchi, indi rifilata a un teatro nostrano senza ovviare alle banalità. A Venezia si ripassa cosa e come debba essere una commedia in musica: ogni soluzione drammaturgica è modellata sulla compagnia di canto del momento, perché nessun interprete veda costernate le proprie possibilità e specialità; i personaggi sono inseguiti fin nelle più remote pieghe, fino a fare della comprimaria Berta un monumento di caratterizzazione; le controscene comiche si susseguono l’una all’altra senza tregua, eppure non si ha mai il sentore di horror vacui, di triviale, di fuori luogo: ogni gesto è dentro la parola e dentro la musica, imitando con pungente attenzione e ampio sorriso le debolezze della vita quotidiana.
Come mai prima, nel nuovo ciclo di recite il fortunato allestimento trova una concertazione di pari livello, complice e analitica, conscia di come ben declinare alla contemporanea un testo fresco di due secoli sulle spalle. Stefano Montanari è infatti un direttore ideale, in perfetto equilibrio tra lo zelo e il brio, il pudore e la sferzata: viene dal mondo della musica antica, accosta l’opera ottocentesca senza arroganza, accetta di studiarla da zero anziché darla per assimilata col latte materno; ne esce un Barbiere tanto umile quanto provocante e tanto puntiglioso quanto vivace, con qualche ripristino filologico – il fortepiano accompagnatore estemporaneamente realizzato anche nei “numeri” musicali, oltre che impegnato nei recitativi secchi – che accontenta sia il musicologo sia il gusto postmoderno.
Il segreto, poi, di una compagnia di canto perfetta negli elementi e ancor più nel suo insieme? L’essere tutta italiana, e dunque padrona di un genere musicale e di un testo specifico. È significativo che l’asino caschi solo dove il coreano Julian Kim, il vociante e superficiale Figaro appena ascoltato a Bologna, sempre esagitato nel porgere e monocromo nel canto, venga a dare il cambio al ben più moderato, brillante e assennato Davide Luciano nella parte protagonistica. Un vulcano di simpatia è, una volta di più, la Rosina di Chiara Amarù: ha spirito imprevedibile e scoppiettante come la sua vocalizzazione rapida e granita, come il registro acuto adamantino e chiaro e come il registro grave torvo e pieno; tende a calcare la mano sul lato divertito, spiccio e persino aggressivo del personaggio, ma senza fraintenderlo. Esperimento poco riuscito, invece, quello di chiamare alla parte baritenorile del Conte d’Almaviva il delicato tenore di grazia Anicio Zorzi Giustiniani, specializzato nel repertorio settecentesco ma non in quello rossiniano: l’affaticamento trapela in breve e rende decisivo il taglio, non più accettabile ai nostri giorni, del grande rondò sul finire dell’atto II.
Reso pigro, molle e sornione dal passare degli anni, Roberto Scandiuzzi traspone svagato qualche tratto di sé nella parte che interpreta: ed ecco un Basilio umanamente filosofico e nobilmente trasandato, senza che si perda una parola nell’ottima pronuncia e senza che venga a mancare una tra le più sontuose paste di basso oggi in circolazione. Non meno a fuoco il Bartolo di Omar Montanari, strappato al luogo comune del vecchio barbogio e cesellato invece nella ricerca di un nervosismo piccino, scattante, parlante sul sillabato veloce come se quello fosse l’elemento espressivo naturale di un tutore oltre la mezza età ma sempre in forze. Di pregio il comprimariato di William Corrò come Fiorello, e irresistibile Giovanna Donadini come Berta: nessuna cantante più di lei sembra essersela spassata ad approfondire la parte, e nessuna più di lei ha proficuamente piantato la tenda nell’orizzonte teatrale di Morassi; così, quando nella stretta del Finale I il personaggio tiene la parte più elevata tra tutte, e quando si vede la Donadini avanzare trionfante al proscenio per tuonare acuti, nella gaglioffata si riassume un personaggio maiuscolo e un’interprete tutta data all’arte sua.