Sedotti da Carmen
di Roberta Pedrotti
A Torino la Carmen di Anna Caterina Antonacci impone il multiforme ingegno di una recitazione perennemente cangiante, e controllatissima, fra le sfumature del canto e del parlato. Giustamente agguerrita e più risoluta del consueto la Micaëla di Irina Lungu, mentre Vito Priante è un Escamillo sicuro ed elegatemente scanzonato. Sul podio Asher Fisch garantisce l'interesse di una concertazione serrata e di una cura energica quanto raffinata dell'orchestra.
TORINO, 26 giugno 2016 - Sotto un impassibile, eterno sole mediterraneo, un viavai incessante e cadenzato solca stancamente la piazza. Piccole storie di monelli, di ragazze in visita al fidanzato militare, di qualche graduato in vena di goliardia, la pausa delle operaie fra nubi indolenti di fumo. Ed ecco che, finalmente, arriva lei, Carmen. Il suo fascino magnetico è quello di Anna Caterina Antonacci, una di quelle bellezze forti ed enigmatiche che sembrano plasmate direttamente alle radici del mito classico; una di quelle voci screziate dalla personalità misteriosa e inafferrabile, come la loro stessa definizione di registro. Un'artista che fa letteralmente sua, con il ruolo eponimo, l'intera opera, motore inesorabile dal preciso, prepotente disegno interpretativo.
Carmen è una sfinge per i cui enigmi non esiste una soluzione univoca; il suo stesso scandalo iniziale non fu, semplicemente, quello del finale cruento, ma di come esso viene perseguito: non era certo la prima volta che l'Opéra-Comique (o il teatro Feydeau, che con essa si era fuso all'inizio del XIX secolo) ospitava un'opera di carattere serio, ma la Médée di Cherubini o La damnation de Faust potevano vantare un'omogeneità di registro, un'ispirazione intellettuale e letteraria elevata. Viceversa quel che disorienta in Carmen è la varietà di registri, il realismo estremo di un'ambientazione socialmente bassa e irregolare che accoglie egualmente comico e tragico. Se per verismo si intende la poetica del naturalismo e non una volgarità di superficie, allora è sbagliato negare recisamente a Carmen una dimensione verista, così come è sbagliato negarle leggerezza, spirito giocoso, eleganza, ironia. È anche sbagliato demonizzare la versione di Guiraud, che fece sostanzialmente ciò che avrebbe fatto lo stesso Bizet se fosse sopravvissuto: rivedere l'opera, dotarla di recitativi cantati, di un'orchestrazione più robusta e di ballabili per garantirle una circolazione nei massimi teatri internazionali (più o meno quel che fece Gounod con il suo Faust). Nondimeno è nella struttura primigenia con i parlati che soprattutto l'accostamento dei diversi registri espressivi può plasmarsi con inesauribile vitalità teatrale. E da lì sembra partire Anna Caterina Antonacci, che affronta Carmen come un unico grande testo in cui la voce si esprime in tutte le gradazioni di colore, intonazione, plasticità metrica e ritmica: una sorta di prosimetron in cui il libretto è sempre pronunciato con una cura minuziosa del dettaglio, con una compenetrazione del valore musicale ed espressivo della fonetica francese di classe e intelligenza superiore. È esperienza più unica che rara intendere un'Habanera detta, nel vero senso della parola, con tale incisività, quasi ipnotica. La sublime tragédienne, la Medea, la Cassandre ineffabile, abbandona il coturno per vestire i panni della sigaraia: la grandezza dell'interprete rimane immutata in mondi lontanissimi, nel trasecolorare fra sincerità e finzione, fra il parlato, il canto che fa parte come tale dell'azione e quello che è lirica espansione dell'espressione. In questo spettro la stessa fonetica - diversa in francese fra il canto, la declamazione poetica e il parlato in prosa - contempla tutte le possibilità, sfumando, per esempio, differenti gradi di rotacismo. E, se l'occasione lo richiede, si possono ben sfiorare perfino accenti volgari, sfruttati con precisa e proficua intenzione: Quod licet Iovi non licet bovi.
Non è nella sensualità tattile di mezzi vocali rigogliosi che vive questa Carmen metamorfica, cangiante attrice di gesto, parola e musica. Ella marca bene la sua condizione di alterità, di creatura eccezionale per il resto del mondo, per ogni mondo, più o meno onesto, più o meno visibile. Qui si muovono figure che potrebbero sparire se non fossero interpretate con intelligenza e gusto per il contrasto: Irina Lungu è una Micaëla volitiva, risoluta, capace di dar sostanza alle delicatezze del duetto con José e all'aria del terzo atto. Poiché il personaggio non si costruisce solo sulle pagine celebri, ma essenzialmente sui dettagli, fa piacere sottolineare l'efficacia con cui intona “Une parole encore: ce sera la dernière”, mentre le si potrebbe suggerire di marcare maggiormente la specifica “Une mère, ta mère” sempre nel terz'atto. Vito Priante dimostra come per Escamillo non sia necessario far gli smargiassi, ma basti cantar bene, con una chiarezza di dizione esemplare: quando non si perde una parola in un'emissione limpida ed elegante, ecco che la naturalezza si sposa all'efficacia e questo torero ironico, spensierato perché sicuro di sé – perfetto opposto di Don José – s'imprime nella memoria senza limitarsi a lusingare le platee con l'effetto della celebre sortita. Dmytro Popov, viceversa, ci ricorda quanto il ruolo di Don José sia diabolicamente complesso, esiga spessore drammatico (o, in un tenore più lirico, un'esperienza, una tecnica, una sottigliezza tali risolvere degnamente le pagine più intense) ma anche raffinate doti di dicitore e padronanza del canto sfumato, nonché nel trillo della chanson del Dragon d'Alcalà. Popov parte con buone intenzioni, dimostra la volontà anche di cantar piano e render giustizia agli occasionali abbellimenti, ma l'esuberanza giovanile lo porta a confidare troppo nella sua natura, a cedere alla tentazione di un canto di forza che prosciuga via via le sue forze, lasciandolo troppo flebile nel terzo e nel quarto atto, laddove viceversa la temperatura dovrebbe impennarsi.
La costellazione dei comprimari – tutti in realtà fondamentali – è ben caratterizzata nel complesso, con la vistosa eccezione del Moralès di Emilio Marcucci, dal canto quantomai sgraziato. Molto meglio fa l'autorevole Dancaïre di Paolo Maria Orecchia, spalleggiato dal Remendado veterano di Luca Casalin, e dalle ben assortite Anna Maria Sarra (Frasquita) e Lorena Scarlata Rizzo (Mercédès). Zuniga di lusso è Luca Tittoto, che caratterizza da par suo, da splendido attore qual è, l'ufficiale libertino. Da ricordare anche Sax Nicosia, per una volta apprezzato al di fuori dalla consueta collaborazione con Davide Livermore quale bravissimo Lillas Pastia e Guida.
Se non integrali, i parlati sono comunque conservati in misura decisamente maggiore rispetto a quanto non avvenga abitualmente, con evidente giovamento degli equilibri teatrali di cui, però, non sapremmo bene a chi attribuire il merito maggiore, giacché, se la prosa dovrebbe essere affare del regista, la versione scelta non corrisponde comunque a quella eseguita per la creazione di questo allestimento all'Opernhaus di Zurigo, in cui si utilizzarono i recitativi di Guiraud [leggi la recensione del DVD]. L'impianto essenziale, l'assolato disco sgombro da ogni scintillìo spagnoleggiante, da ogni folklore decorativo sembra sposarsi meglio alla teatralità dell'opèra-comique e la regia di Matthias Hartmann (scene di Volker Hintermeier, costumi di Sü Buhler, luci di Martin Gebhardt) convince più che nel DVD zurighese, lasciando scorrere anche qualche sottolineatura boccaccesca (Zuniga che si appropria della rivista scollacciata consultata in segreto dal timido Don José). Nulla di memorabile, ma nel complesso ben confezionato, ben recitato con caratteri definiti a dovere. Certo, pensando al fatto che negli ultimi trent'anni quattro volte Carmen è andata in scena a Torino e in quattro allestimenti diversi (Warner, Ponnelle, Bieito, Hartmann) viene da domandarsi perché mai nessuna produzione, nata in casa acquistata o noleggiata che sia, sia riuscita a tornare in una ripresa.
Certo, ogni volta che si assiste a una Carmen, e soprattutto a una Carmen che si giostri nelle forme originali più elastiche vagheggiando quelle della prima assoluta, si può supporre di assistere a uno spettacolo diverso. La natura dell'opera lo permette, anche se non dispiacerebbe si consolidasse (anche nelle locandine e nelle indicazioni dei programmi di sala) l'abitudine a indicare i punti di riferimento di versioni ed edizioni più o meno critiche. Asher Fisch, sul podio al suo debutto al Regio, annuncia di volersi avvicinare il più possibile al primo disegno di Bizet: via le danze, dunque, e via molti altri interventi di Guiraud, dialogo in forma di mélodrame fra le due esposizioni del coro infantile, riapertura di qualche battuta tagliata qua e là. E, tuttavia, sparisce metà del duetto fra Don José e Micaëla, chiuso dopo la prima esposizione dell'a due: taglio presumibilmente dovuto al direttore (a Zurigo il duetto era completo) e difficilmente comprensibile per gli equilibri standard dell'opera francese. Quali che siano le scelte filologiche e le loro motivazioni, la concertazione di Fisch si fa apprezzare per l'ottimo lavoro svolto soprattutto con l'orchestra (in ottima forma, come del resto i cori di adulti e ragazzi). Fin dal pulsare funebre dei timpani nell'ouverture è chiaro che una vigorosa drammaticità vibra in questa lettura, con una compattezza e una corposità del suono che sa comunque stemperarsi in una bella nettezza ritmica, in ben ponderati assottigliamenti, nella sensualità, notturna, lirica, indolente o ritmicamente inquieta ed esuberante, degli Entr'acte. Il senso di morte e di fatalità permea la partitura, ma non la uniforma in un tono lugubre e greve, sviluppando, viceversa, un variopinto e ben cesellato ventaglio espressivo.
Ottimo successo finale; pubblico così numeroso da render quasi difficile muoversi nel foyer durante l'intervallo: e sì che pochi teatri in Italia possono vantare uno spazio così arioso, ampio e luminoso.
foto Ramella&Giannese