Le notti di Fiorilla
di Roberta Pedrotti
Davide Livermore, pur senza giungere all'ipertrofia della sua Italiana in Algeri, ribadisce il suo stile inconfondibile con un Turco in Italia letteralmente fuso a 8 e 1/2 in un omaggio al cinema felliniano. Sul podio, Speranza Scappucci debutta al Rof salutata da un bel successo di pubblico, condiviso con il cast vocale e i curatori della messa in scena.
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PESARO, 9 agosto 2016 - Prima che Gianandrea Gavazzeni lo rispolverasse con tutta la sua autorità, nonché la sua disinvoltura nel tagliare e riassemblare, Il turco in Italia poteva per lo più figurare nei cataloghi enciclopedici come riflesso speculare e meno fortunato dell'Italiana in Algeri. Riscopertolo, il XX secolo saluterà la sua struttura metateatrale come una straordinaria anticipazione dei Sei personaggi pirandelliani, senza sottilizzare troppo sul fatto che il libretto di Romani musicato da Rossini, pur assai bello, non brilla per rivoluzionaria originalità, ricalcandone uno precedente di Caterino Mazzolà a sua volta partecipe di topoi ampiamente diffusi nell'opera buffa del tempo. Poeti, gente di teatro, personaggi esotici son pane quotidiano nel XVIII secolo, fra satira e filosofia, dall'Impresario delle Smirne di Goldoni alle Lettres persiannes di Montesquieu. Nondimeno, se dobbiamo rinunciare al mito di un'invenzione profetica, non possiamo non riconoscere nel Turco un'opera particolarmente affine alle riflessioni più recenti sul processo creativo, sul rapporto fra l'artista e la sua opera, fra le dimensioni del reale e della rappresentazione (non più solo teatrale o letteraria, ma anche cinematografica). In quest'ottica, Davide Livermore propone un parallelo fra il mondo felliniano di 8 e 1/2 e l'opera di Rossini, segnando anche un personale ritorno alle origini, giacché una delle sue prime esperienze registiche, se non la prima assoluta, fu proprio un Elisir d'amore pensato come un omaggio all'immaginario del cineasta romagnolo.
Collocare il Turco nel mondo della celluloide non è di per sé una novità, ma lo stile di Livermore resta unico e inconfondibile: anche rinunciando a quegli eccessi d'iterazione e sovraffollamento che avevano resa indigesta L'italiana in Algeri, il suo teatro resta ipercinetico, volutamente e geneticamente sopra le righe, sgargiante perfino quando predominano i toni del bianco e del nero, affidando i colori principalmente al corteo circense impersonato dal coro. Eppure, verrebbe da dire, fuori dalla cornice rutilante e un po' ingombrante, il meglio di Livermore sta nelle piccole cose, in alcuni dettagli comici ben azzeccati nelle interazioni più semplici (per esempio, prima che la gag rischi di farsi troppo insistita, i ceffoni fra le donne rivali che finiscono per intercettare regolarmente il conteso Selim), per il resto è difficile sfuggire a una certa bidimensionalità di personaggi di un racconto che pare proseguire per quadri giustapposti. Di fatto, Livermore sovrappone il film all'opera, e viceversa, in un'operazione di per sé indolore, che, anzi, in questo caso può giovare a valorizzare la centralità del Poeta, nei cui panni Pietro Spagnoli afferma non solo la sua statura di musicista (e una vocalità sempre ben salda) ma anche il carisma teatrale per assumere il ruolo di Mastroianni.
Qualche nodo viene al pettine quando il gioco di rimandi e citazioni non pare porsi il problema drammaturgico di una distinzione fra personaggio e persona, fra evoluzione autonoma della vicenda e opera dell'Autore, fra ribalta e dietro le quinte, realtà e finzione, riunendo in un unico set un'unica vicenda, poco importa quanto vissuta e quanto recitata, semplicemente presente – e scandita dai ciak – con il Poeta-sceneggiatore-regista. Più di quest'ultimo nei dramatis personae, è il regista vero e proprio il vero demiurgo che, senza limiti, interpola battute parlate nei recitativi e antepone una scenetta in prosa (francamente superflua) alla Sinfonia: naturalmente l'edizione critica stampata con tutti i crismi a ricordare cosa è stato scritto da Rossini, come quando e perché, e i crediti in locandina garantiscono la libertà dell'interprete nello spazio volatile di una rappresentazione. L'unico limite sta nel buon gusto, nella capacità di far percepire naturale e necessario nel contesto tutto ciò che avviene: in tal senso, talora i ciak e le battute aggiunte scorrono naturalmente, talaltra non dissipano una sensazione di ridondanza posticcia.
Bisogna comunque riconoscere che il ritmo imposto allo spettacolo riesce a sostenere i rallentamenti congeneti della bizzarra edizione in uso, che accoglie con i brani apocrifi (la cavatina di Geronio nel primo atto, l'aria di sorbetto di Albazar e il finale secondo) anche l'aria alternativa per Geronio nel secondo atto e tutti gli assoli di Don Narciso, assommando così ben tre pezzi solistici consecutivi nel cuore del secondo atto – cosa non prevista in nessuna versione curata da Rossini. Concorre brillantemente a evitare secche teatrali la concertazione di Speranza Scappucci, la quale si conferma una delle migliori bacchette in circolazione, capace di gestire al meglio un'orchestra come la Filarmonica Rossini, che consiglia qualche prudenza specie per quel che concerne i corni.
Il suo lavoro si sposa benissimo con il senso della parola cantata di Nicola Alaimo, chiarissimo nei sillabati più vorticosi, scenicamente a metà fra un Carlo Campanini e un Leopoldo Trieste ed elemento di spicco del cast insieme con il già citato Spagnoli.
Sempre in ambito maschile, René Barbera dimostra di non possedere solo una voce schietta e ben proiettata – ancorché un tantino nasale – ma di saper essere anche un interprete capace di render coerente anche un curioso Don Narciso in abito talare.
C'è poi, naturalmente, nel ruolo eponimo di Selim il basso Erwin Schrott: ben noto dono di natura in gola, ben nota estroversione scenica a renderlo un cantante ideale per il teatro di Livermore. Ipercinetico, compiaciuto, ammiccante, è esattamente il Turco in stile Sceicco Bianco che occorre in questo spettacolo, in virtù anche di una pronuncia chiara ma lievemente esotica e di qualche inflessione nell'emissione che sembra evocare certi effetti vocali di Alberto Sordi. Da un cantante di questo tipo sarebbe arduo attendersi una quadratura musicale da rifinito specialista, e difatti l'istrionico, istintivo Erwin si accattiva gli applausi finali anche ad onta di qualche sbavatura (ma, bisogna dirlo, forse per una contagiosa emozione da debutto, la memoria ha giocato più di uno scherzetto a diversi membri del cast, per quel che concerne il testo).
C'è poi, naturalmente, la primadonna, un'Olga Peretyatko valorizzata al meglio nella sua rievocazione di Claudia Cardinale dai costumi di quel geniaccio sartoriale che risponde al nome di Gianluca Falaschi. La donna bella e sfrontata, abituata al lusso e a relazioni d'ogni sorta (il prelato Narciso, il turco Selim), la piccola Bovary che annega fra una sigaretta e un amorazzo l'infelicità del matrimonio con un uomo (apparentemente) debole e più anziano può trovare una vivacissima incarnazione. Peccato che proprio in quello che dovrebbe essere il momento di gloria di Fiorilla, la cascata di variazioni finali della grande aria “Squallida veste e bruna” vedano un repentino calo d'energia e, di conseguenza, mancato fuoco alle promettenti, auspicate polveri pirotecniche, ma chiusa prudente e più dimessa.
Il successo alla fine non manca: applausi unanimi per tutti, compresi la Zaida (qui una circense chiromante barbuta) di Cecilia Molinari e l'Albazar en travesti (ulteriore esempio della tipica, estrema fantasia di Livermore) di Pietro Adaini, nonché il coro del Teatro della Fortuna di Fano preparato da Mirca Rosciani e tutti gli artefici della messa in scena.
foto Amati Bacciardi