La rendita di Violetta
di Francesco Lora
Ancora una ripresa della Traviata di Verdi alla Fenice, nella memorabile produzione con la regìa di Carsen: a sorpresa si ritrova la Dotto come protagonista, mentre il contorno non vanta altrettanta sicurezza.
VENEZIA, 17 settembre 2016 – Spettacolo inossidabile, La traviata con la regìa di Robert Carsen è da un decennio a questa parte, con montagne di recite, la gallina dalle uova d’oro del Teatro La Fenice. L’idea teatrale non invecchia, ma può essere tenuta in ostaggio dal riassortimento degli interpreti, di ripresa in ripresa. Per gli intenditori dell’arte del canto, le recite correnti – ben dodici, dal 6 settembre all’8 ottobre – avevano il loro principale motivo d’essere nell’esordio del soprano Jessica Pratt come Violetta Valéry. Ma qualcuno ha malignato che la prosperosa australiana e superba belcantista, per giunta impegnata nelle prove di Semiramide a Firenze, non fosse l’ideale per rilevare il physique du rôle lasciato da Patrizia Ciofi. Quel ch’è certo, l’allettante nome della Pratt è presto sparito dalla locandina, sostituito da quelli di Maria Grazia Schiavo ed Ekaterina Bakanova; anzi no: al posto della Bakanova, per la seconda metà del ciclo di recite, è arrivata all’ultimo momento Francesca Dotto, la più assidua Violetta veneziana delle ultime tre stagioni teatrali. È arrivata quasi ella stessa sorpresa di essere di nuovo lì: sempre più visceralmente e caparbiamente immedesimata nella parte, senza mai concedersi vezzi da primadonna fini a sé stessi; ma anche con qualche maggiore cautela rispetto al solito: nella cabaletta che chiude l’atto I non è più osata l’ascesa al Mi bemolle sopracuto, e ogni uscita dal pentagramma sembra tecnicamente soppesata, quand’anche i filati nell’atto III bastino a escludere ogni disagio lungo l’estensione.
Delude, invece, il ritorno del tenore Shalva Mukeria come Alfredo Germont, ora come allora impacciato nei movimenti scenici e casuale nella prosodia italiana, tutto in difesa quando sceglie di cantare piano e tutto fibroso quando indulge a cantare forte, nonché sempre più penalizzato dall’aridità del timbro e dalla senilità del porgere. Nella recita qui recensita, anche il terzo interprete principale subentra a un collega in prima compagnia: il Giorgio Germont di Marcello Rosiello trae pur esso profitto da un canto quanto più possibile contenuto nel piano, dove la linea si mantiene sonora e morbida; il personaggio è per ora solo abbozzato e da approfondire nelle imminenti recite autunnali del circuito lirico lombardo. Quanto al concertatore Nello Santi, infine, la doverosa simpatia verso l’ottantacinquenne entusiasta deve vedersela con gli esiti musicali effettivi: si ha una lettura lenta, grigia, pesante, chiassosa, con evidente squilibrio tra le sezioni d’orchestra; una lettura che si schiera col cantante, ma non già per ispirarlo, bensì per assecondarne la pigrizia; una lettura che ratifica tagli di tradizione non più accettabili, e tantomeno alla Fenice e con Carsen; una lettura che si spreme d’attenzioni nell’accompagnamento ad «Addio, del passato – bei sogni ridenti», ma disbriga il resto senza tante cure espressive e narrative; una lettura che, con retoriche posate di bacchetta, invita il pubblico ad applaudire nel bel mezzo del “numero” musicale unitario e a svilire la tensione drammatica accumulata dal compositore. Che sia giunto il momento, per una produzione memorabile, di sostituire nuova linfa alla mera rendita?