Il pretesto della Pulzella
di Roberta Pedrotti
Delude l'adozione del testo censurato in luogo del libretto originale ripristinato in edizione critica (e già, peraltro, ascoltato a Parma nel 2008) per Giovanna d'Arco al Teatro Farnese di Parma in una messa in scena poco convincente firmata da Peter Greenaway e Saskia Boddeke. Alla protagonista Vittoria Yeo mancano il carisma e la personalità, oltre allo spessore vocale, della Pulzella d'Orléans.
PARMA, 9 ottobre 2016 – Quando si scritturano degli artisti si auspica sempre, naturalmente, il miglior risultato possibile con la consapevolezza che non sempre ciò si potrà realizzare. Fa parte del gioco e, che si ricorra a nomi noti o a giovani promesse, ogni progetto è una scommessa. Ci sono però delle decisioni preliminari che non sono scommesse: sono prese di posizione con un valore intrinseco, in questo caso ingiustificabile e che fa pesare l’assenza di una direzione artistica vera e propria per il Festival Verdi (che annovera un Direttore generale e un Consulente per lo sviluppo e i progetti speciali). Stiamo parlando della scelta di tornare alla versione censurata del libretto di Giovanna d’Arco: abbiamo già detto che quello parmigiano non è un Festival di ricerca musicologica, ma un tale passo indietro rispetto alla stessa, pregevolissima, edizione presentata al Regio nel 2008 [leggi la recensione del DVD] risulta veramente inconcepibile. Come se il Duca di Mantova tornasse a chiedere “Una stanza e del vino” invece di “Tua sorella e del vino” nel Rigoletto.
Entrando nello specifico, la scansione originale del libretto sarebbe in quattro atti, mentre il programma di sala riporta quella tradizionale in un prologo e tre atti. I riferimenti alla Vergine sono regolarmente censurati, travisando l’importante impronta mariana nella vocazione di Giovanna: Carlo canta “dov’è la pia” invece di “dov’è Maria”, la protagonista torna a “Tanto richiedo a te, speme del mondo” in luogo di “Tanto richiedo a te, Vergin Maria”, così come gli Spiriti eletti non intonano l’originale “Sorgi! O diletta vergine! | Maria, Maria ti chiama” bensì “Sorgi i celesti accolsero | la generosa brama” e quelli malvagi tornano alla versione censurata nichilista “O figliuola | ti consola | è una fola | Belzebù” invece della seduzione satanica “Non è brutto qual per tutto | vien costrutto Belzebù”. Questi sono solo alcuni esempi, ma il più grave resta l’alterazione dell’interrogatorio di Giacomo alla figlia nel finale terzo, nel quale scompare il fondamentale riferimento alla verginità ("Pura e vergine sei tu?" diviene "Non sacrilega sei tu?") di Giovanna e l’invocazione a Francia, Fede e Maria si trasforma in più generici “dio vindice”, “alme dei parenti”, “tua madre”. L’adozione del testo così censurato sarebbe deprecabile in ogni contesto; nell’ambito di una manifestazione chiamata Festival Verdi lascia interdetti e perfino un po’ imbarazzati. Non ci si può che augurare che, per il futuro, si corra ai ripari e si presti maggiore attenzione.
Certo, per un’opera affascinante e bistrattata come Giovanna d’Arco [leggi l'approfondimento], questa scarsa attenzione per il testo è già un pericoloso indizio della strada che pare decisamente imboccare la messa in scena firmata da Peter Greenaway e Saskia Boddeke: quella di fare dell’opera nient’altro che un pretesto. Poteva essere intrigante l’idea di affidare le vicende di una grande visionaria a un artista visionario all’interno di uno spazio magnifico ma difficile come quello del Teatro Farnese, che con le sue architetture lignee illude mascherando vaste dimensioni e acustica insidiosa. Nei fatti abbiamo assistito a un paio d’ore di videomapping sulla cavea del Farnese, sostanzialmente avulso da un’azione scenica – se così si può dire – ridotta al gesticolare di due danzatrici alter ego di Giovanna (la locandina ci informa che sarebbero la Guerriera e l’Innocente, e ci fidiamo sulla parola). Alcuni effetti possono essere di per sé suggestivi e ben realizzati, altri, molti altri, sono decisamente meno interessanti come contenuti e tecnologia: l’immensa Giovanna in stile fatina manga è davvero difficile da digerire come concezione, e come animazione siamo davvero distanti dai risultati degli ultimi anni, più vicini a serie tv a basso costo che a un prodotto artistico. Per di più, le potenzialità della scenografia virtuale restano fini a sé stesse senza rapportarsi con la drammaturgia musicale e fornirne, se non un’interpretazione, almeno un’illustrazione. Nessuna riflessione traspare sull’interiorità della protagonista, sul suo delirio o sulla sua vocazione, sulla sua femminilità, sul suo rapporto con il potere, l’autorità paterna, l’amore, la religione; su una pedana rotante, semplicemente, cantano Giovanna, accompagnata dai suoi doppi, e Carlo VII, mentre Giacomo è quasi sempre esiliato nella cavea senza interagire granché con il prossimo. Cantano, mentre vediamo roteare simboli di diverse religioni, portate poi in processione come insegne, mentre scivolano linee (crepe, acqua, rampicanti…) a disegnare architetture, precipitano cubetti dorati, galleggia una corona insanguinata, forbici stanno conficcate come spade nel terreno, fronde o croci gettano la loro ombra. Delle voci angeliche o demoniache intese da Giovanna non v’è traccia teatrale, giacché i loro interventi son per lo più comodi intermezzi in cui i personaggi possono cambiar d’abito e rinnovare l’attrezzeria (che poi non ci si preoccupi di integrare in un’azione coerente l’apporto di nuovi esigui elementi si traduce con il noncurante ingresso di figure del tutto aliene all’economia dello spettacolo).
Al termine, alla morte della protagonista, la proiezione di immagini di profughi, vittime di guerre, povertà e soprusi in ogni angolo del mondo non genera commozione, ma fastidio, come una strumentalizzazione del dolore attuale del tutto avulso dalla drammaturgia e da quanto visto fino a quel momento, apposto gratuitamente come un impegno che sa tanto di posticcio e di mera opportunità da parte dei responsabili della messa in scena.
L’assenza di un vero lavoro registico sulla protagonista rende ancor più pesante la mancanza dell'autentica primadonna che il ruolo esigerebbe. Vittoria Yeo è un soprano di caratura lirico leggera (constatare che frequenta Lady Macbeth e Odabella sconcerta, e soprattutto preoccupa per la sua salute vocale futura): non sarà l’optimum per risolvere al meglio questa scrittura, ma la Yeo non forza e molti sarebbero gli esempi di voci non certo drammatiche che hanno affrontato Giovanna (Mariella Devia e Jessica Pratt in testa). Il problema è che non si ravvisa qui una preziosità timbrica, un’intuizione di fraseggio, una scintilla musicale che illumini questo canto e conferisca un carattere, una personalità a questa Pulzella ben poco carismatica, bensì piuttosto dimessa se non anonima.
Luciano Ganci è un Carlo VII dalla voce generosa e dagli acuti sicuri, non è sua colpa se anche al suo personaggio più che ingaggiare qualche lotta con le figuranti non è richiesto molto, né se la magnifica romanza “Chi più fedele amico”, con quel finissimo duetto fra violoncello e clarinetto, viene turbata dall’indiscreta costruzione di un muro/schermo alle sue spalle.
Costretto ai margini dell’azione, quasi un estraneo, il Giacomo di Vittorio Vitelli si distingue comunque per la morbidezza del timbro, l’omogeneità dell’emissione, la qualità di un canto schiettamente verdiano.
A Gabriele Mangione, Delil, si deve rendere il merito della frase cantata forse con maggior espressione della serata, “Rotto è il nemico, ma Giovanna è spenta”. Luciano Leoni completa la locandina insieme con il Coro del Regio (il cui contributo è di alta qualità, benché non sollecitato in una particolare ricerca di colori fra interventi terreni, inferi e celesti) e l’orchestra dei Virtuosi Italiani, che assolve bene al suo compito per quel che può trasparire dall’acustica poco propizia del Farnese. Allo stesso modo non è facile esprimere una valutazione compiuta sulla concertazione di Ramon Tebar: a suo discapito va l’aver avallato il ripristino anacronistico del testo censurato; a suo merito una buona coesione complessiva, una netta definizione ritmica e una cura dei contrasti fra lirismo e impeto guerresco; a sospendere il giudizio una certa difficoltà nel percepire colori e varietà d’articolazione e fraseggio, in un quadro espressivo non troppo avvincente.
Il folto pubblico internazionale applaude compatto: per un bizzarro gioco acustico (siamo collocati su quello che solitamente è il palco, quindi abbiamo alle spalle i vasti spazi della splendida Pinacoteca Nazionale: soluzione comunque preferibile a quando sono i musicisti a trovarsi in questa posizione), a seconda della posizione, l’accoglienza pare più fredda o più vivace. In ogni caso, si lascia il palazzo della Pillotta nella delusione: avevamo imparato ad amare Giovanna nella sua forma originale proprio a Parma nel 2008, l’avevamo adorata poi alla Scala nel 2015 [leggi la recensione], fa male vederla regredita alla versione censurata e ridotta a sembrare un mero pretesto per le immagini di Greenaway, Boddeke e del loro staff.
foto Roberto Ricci