Mimì in banlieue
di Alberto Ponti
Una Bohème di successo apre la stagione al Regio di Torino
TORINO, 12 ottobre 2016 - Il grande Renato Barilli nel suo volume Il paese del melodramma (1929) traccia, in memorabili pagine, un commovente ritratto di Giacomo Puccini, scomparso pochi anni prima.
Durante uno degli ultimi incontri con il compositore, in una di quelle taverne russe di moda nei primi anni ’20 nei seminterrati romani, dove il maestro si introduceva a osservare il demi monde di un’aristocrazia vinta e sottomessa dai debiti e dalle disgrazie, Puccini confidò all’amico scrittore che avrebbe voluto passare i suoi giorni, tutte le sue ore in quell’atmosfera, senza uscirne mai più, per concludere mestamente: ‘Caro Barilli, la mia vita è fallita’.
Non sappiamo quanto il musicista fosse veramente sincero, o quanto invece si immedesimasse nel protagonista di quell’opera mai composta che fu in fondo la sua biografia. Resta il fatto che la sensibilità verso il mondo dei ‘vinti’ è una delle cifre stilistiche che contraddistingue l’intera sua produzione.
Assai indovinata è stata quindi la regia del catalano Àlex Ollé che, nella Bohème inaugurale della stagione 2016/17 del Teatro Regio di Torino, ha inserito lo svolgimento dell’azione in una periferia contemporanea, luogo dove oggi è possibile, più che altrove, inoltrarsi in quel sottobosco umano costituito da spezzoni di vite minime e marginali pronte ad accendersi in ebbrezze momentanee per tosto inabissarsi in altrettanto improvvise sofferenze, componendo quell’ampio affresco di speranza e dolore così ben delineato dalla musica pucciniana.
Nonostante poche, evitabili concessioni al malcelato desiderio di riuscire originale a tutti i costi (per tacere dei costumi di Lluc Castells, certamente attuali ma insignificanti ai limiti della sciatteria), il meccanismo scenico funziona e risulta drammaturgicamente valido, anche nella complessa scenografia del Caffè Momus del secondo quadro, supportato da un ottimo uso delle luci (curate da Urs Schönebaum), essenziale, allusivo e mai violento, che è un punto di forza di questa rappresentazione.
Il groviglio metallico sul palcoscenico rende bene l’idea di scenari quasi postindustriali, nemmeno troppo distanti dal centro di Torino, ma la miriade di condizionatori sporgenti da ogni possibile appiglio ricorda, più che la Parigi del libretto, certi bassifondi di metropoli orientali, forse più adeguati alle vicende di una Butterfly dei nostri tempi.
La direzione di Gianandrea Noseda, ineccepibile, pone in rilievo, con un taglio sostenuto ma mai frettoloso, la continuità del discorso sinfonico, tracciando un arco ben teso lungo tutta l’opera, che un Puccini ormai totalmente padrone dei propri mezzi espressivi imperla di raffinatezze di scrittura sconosciute anche alla precedente Manon, valorizzate dalla grande trasparenza strumentale che il maestro milanese riesce a trarre da un’orchestra di prim’ordine e con solisti in grande spolvero (tutti deliziosi, tra i tanti, gli interventi dei flauti nel primo quadro).
Su questo grande poema sinfonico si innestano le voci dei protagonisti, a cominciare dal soprano Irina Lungu (già ascoltata a Torino nel 2009 in una buona Traviata), una Mimì dal canto educato, lontano da inopportuni divismi e ben integrato nella visione di Noseda, che raggiunge un culmine di rara intensità nel duetto con Marcello (il più ruvido ma altrettanto efficace Massimo Cavalletti) all’inizio del terzo quadro, vera chiave di volta di tutta Bohème, col suo repentino passaggio al dramma dopo la spensieratezza delle scene precedenti.
Giorgio Berrugi, che dopo una promettente carriera da clarinettista ha intrapreso quella tenorile, è un Rodolfo ben tagliato, dalla voce un po’ timida all’esordio e spesso coperta dall’orchestra (nonostante gli applausi a scena aperta per la ‘Gelida manina’) ma va crescendo di frase in frase, risultando pienamente convincente nei due quadri finali.
Tra gli altri personaggi (Matteo Peirone Benoît e Alcindoro, Cullen Gandy Parpignol, Mauro Barra e Davide Motta Fré i doganieri), lo Schaunard di Benjamin Cho, giovane baritono coreano, appare decisamente in sordina, mentre più indovinati sono il Colline di Gabriele Sagona (altri applausi dopo la romanza ‘Vecchia zimarra’) e la Musetta di Kelebogile Besong, soprano dalla pronuncia e intonazione migliorabili ma di ottima presenza sul palco, che sale alla ribalta da vera protagonista, secondo le intenzioni del compositore, nella scena da Momus.
Il pubblico delle grandi occasioni (come ben si addice a una prima torinese) tributa lunghe ovazioni all’intero cast, contribuendo alla piena riuscita di uno spettacolo gustoso (allestito in coproduzione con l’Opera di Roma) che, a conti fatti, rappresenta una delle migliori Bohème ascoltabili oggi nel nostro paese, tenendo alta, grazie al genio universale di Puccini, la bandiera di una delle eccellenze italiane più vincenti al mondo quale è il grande teatro d’opera.