L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Aya Wakizono nella Pietra del paragone

La pietra e i paragoni

 di Giuseppe Guggino

Il primo capolavoro buffo di ampio respiro nel catalogo rossiniano approda al Teatro Lirico di Cagliari nell’allestimento centrato di Giorgio Barberio Corsetti e Pierrick Sorin; non altrettanto felice si rivela il gioco musicale a causa di una bacchetta giovane ma non particolarmente fantasiosa e lieve.

Cagliari, 18 ottobre 2016 - È sempre un piacere rivedere l’allestimento della Pietra del paragone di Rossini ideato da Giorgio Barberio Corsetti e Pierrick Sorin con costumi di Cristian Taraborrelli e luci di Gianluca Cappelletti per il Théâtre du Châtelet di Parigi e il Teatro Regio di Parma, quest’ultimo all’epoca guidato da Mauro Meli che, oggi direttore artistico del Lirico cagliaritano, ne programma la ripresa. Un piacere perché la sintonia tra il vitalismo della partitura e ciò che si vede in scena non potrebbe essere migliore, perché la chiave satirica del libretto di Romanelli riesce a rivivere in questa trasposizione nell’italietta degli anni ’60, non ultimo per il fatto che gli innumerevoli cambi di scena sono risolti brillantemente con delle proiezioni in chroma-key su fondali riprodotti da riprese in tempo reale di plastici presenti in scena. E sarà forse proprio per la presenza dei plastici che pare rinviare al salotto televisivo della politica del primo canale, sarà per la pelata dello squallido giornalista Macrobio, ma ci pare che lo spettacolo riesca a sottolineare a meraviglia quella sorprendente modernità di vizi e virtù ritratti nell’opera, nell’ottocento come nei nostri tempi.

Se è vero che – come notava Rognoni – la sinfonia de La scala di seta fissa irreversibilmente lo stile strettamente musicale rossiniano, è altrettanto vero che la drammaturgia del pesarese si compie per la prima volta con tutti o quasi i suoi topoi proprio con quel capolavoro di ampio respiro che è La pietra; basti pensare al “temporale” del secondo atto che ritroveremo tal quale (o quasi) dal Barbiere alla Cenerentola fino al Guillaume Tell. Capolavoro, si diceva, perché oltre alla maturità della scrittura (nonostante Rossini avesse appena vent’anni) – la sinfonia sarà di lì a poco trasferita di peso nel Tancredi così come la cavatina del contralto – per i ruoli principali di Clarice e del Conte si poteva contare su Marietta Marcolini (già primo Ciro) e Filippo Galli (già primo Batone), ossia la prima Isabella e il primo Mustafà dell’Italiana, per cui va da sé che i rispettivi personaggi siano proiettati in numeri solistici e insiemi dalla coloratura particolarmente spericolata.

L’esistenza del dvd dello spettacolo parigino, pur costruito su un cast tutt’altro che stratosferico, sollecita qualche paragone con la ripresa di questa pietra. Anche nelle recite cagliaritane si è ben lontani dall’idealità: come Clarice Aya Wakizono è poco più che corretta, non avendo quell’ampiezza di cavata propria della voce contraltile né quella stratosferica agilità che il ruolo esigerebbe, cosicché la prima cavatina scivola nel più totale silenzio, mentre la prestazione prende decisamente quota nella grande scena e aria del secondo atto. Parimenti Gianluca Margheri risulta talvolta accettabile, difettando sovente per precisione, specie nelle temibili agilità del Conte. Nella parte centrale del Cavaliere Giocondo Enea Scala, scontata la scarsa avvenenza del timbro, si fa apprezzare specie nell’aria del secondo atto per pertinenza stilistica, rivelatrice di ormai una consolidata frequentazione di titoli rossiniani. Bene Vincenzo Taormina e Marco Bussi rispettivamente Pacuvio e Macrobio che a qualche occasionale durezza sopperiscono con la presenza scenica talvolta un poco troppo caricata. Funzionali sia Sandra Pastrana come Donna Fulvia (onerata del sorbetto al second’atto) sia Marina De Liso come Baronessa Aspasia; un po’ meno il Fabrizio di Carlo Checchi che, per il ruolo finalizzato a sbloccare tutti gli avviluppi della trama, avrebbe necessitato maggiore smalto.

Il paragone più ingrato, però, riguarda la bacchetta di Francesco Ommassini che, sin dalla sinfonia, ricorre senza parsimonia a piatti, grancassa e triangolo (la partitura contemplerebbe una più discreta banda turca) e così via; per tutta la serata dispensa clangori a piene mani senza cogliere il gioco teatrale trasfuso in musica, risultando alla lunga noioso e talvolta molesto. Il peccato è duplice perché la qualità dei complessi cagliaritani, eccettuati qualche disomogeneità negli archi e qualche disordine di troppo nel Coro istruito da Gaetano Mastroiaco, pare essere apprezzabile (bello l’assolo del corno nella cavatina di Clarice, o quello del clarinetto che segue il temporale, ad esempio) e perché si rovina quella magia che la parte visiva dello spettacolo riuscirebbe altrimenti a creare.

Tuttavia il pubblico, piuttosto freddo al primo atto, mostra un maggiore grado di apprezzamento nel corso del secondo atto con punte di entusiasmo agli applausi finali, ché Rossini è sempre Rossini oltre ogni pietra del paragone.


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.