La sua matrigna
di Giuseppe Guggino
Successo pieno al Teatro Massimo di Palermo per Jenůfa di Leóš Janáček nel bell’allestimento di Robert Carsen proveniente dalla Vlaamse Opera di Anversa. Nel cast guidato dal direttore musicale Gabriele Ferro si impone nettamente l’autorevolissima sacrestana di Ángeles Blancas Gulín.
Palermo, 23 ottobre 2016 - Finalmente, dopo la Götterdämmerung inaugurale [leggi la recensione], il grande teatro ritorna ad abitare il palcoscenico del Massimo di Palermo. Beninteso, non basta esibire in locandina un nome ingombrante (giacché talvolta così facendo le aspettative potrebbero andare deluse) ma viceversa – se non produrre – almeno selezionare uno spettacolo di alto livello, tecnicamente ineccepibile, pensato come crescendo di tensione lungo l’arco narrativo della serata; insomma, un allestimento in grado fare teatro. E per farlo a Robert Carsen (ovvero a Maria Lamont e Claudia Isabel Martin, responsabili della ripresa), quando ispirato come in questo caso, non serve poi molto: l’impianto scenico di Patrick Kinmonth (autore anche dei costumi) presenta un marcato declivio terroso e quinte nere (come si conviene agli spettacoli “professionali” prive di qualsiasi sforo, sia laterale che superiore, anche osservando la scena dai posti angolati cui siamo tanto affezionati, se non altro per poter vedere più da vicino uno spettacolo) in uno spazio minimalista dove gli ambienti sono disegnati solamente da porte infisse al suolo in diverso modo fra il primo atto e gli altri due. Protagonista assoluto nella connotazione delle tre stagioni differenti per i tre atti non può essere che il disegno luci di Carsen e Peter Van Praet: mai una sbavatura, tagli di luce agghiaccianti, perfezione al livello tale da distogliere l’attenzione critica sul dettaglio per lasciarsi trascinare nel dramma. Fino alla fine, a quella pioggia redentrice, catartica che giunge sull’ultimo dialogo tra Jenůfa e Laca a lavare angosce, dolori e rimorsi.
Esattamente in parallelo con la crescita di tensione della parte visiva, anche l’Orchestra e il Coro, dopo un primo atto di non grande mordente, hanno il necessario colpo d’ala a partire dal secondo, nel quale però non si coprono di gloria i passi scoperti del primo violino, così esposto dalla partitura. Gabriele Ferro, già responsabile a Palermo di un’indimenticabile Z mrtvèho domu nel 2008 (quella volta con altra regia di primissimo ordine di David Pountney), gestisce con precisione le difficoltà tecniche di un’orchestra anche in quinta nel primo atto, trovando poi frasi giustamente accorate per il secondo atto fino ad un finale dell’opera molto poetico.
Dopo una partenza in sordina anche Andrea Danková nel ruolo eponimo risulta molto commovente, nonostante un registro grave talvolta troppo evanescente, tanto da soccombere non solo scenicamente alla matrigna di Ángeles Blancas Gulín che, forte di un tonnellaggio ragguardevole e di grande duttilità esibita nel gestire le frasi più estreme, sfodera anche una presenza interpretativa magnetica, disegnando una Sacrestana di assoluto riferimento. Decisamente più opaca è la prova di Gabriella Sborgi come Starenka, così come ugualmente diseguali ma non privi di frecce ai rispettivi archi sono i tenori Peter Berger e Martin Šrejma, rispettivamente Laca e Števa. Molto buoni Italo Proferisce, Daniela Denschlag e Viktorija Bakan rispettivamente l’amministratore del mulino, la serva e Jano, così come su livello alto si attesta il drappello di comprimari per il terzo atto, ossia la famiglia del sindaco impersonata da Valeria Tornatore, Luca Gallo e Maria Hilmes, nonché Lorena Scarlata e Natasa Katai impegnate a dar voce rispettivamente alla vaccara e alla comare.
Temperatura emotiva in sala in aumento nel corso della serata, nonostante i tanti vuoti fra i palchi (pur con appena cinque recite programmate): peggio per chi non c’era o non tenterà di riparare, avendone modo fino al 2 novembre prossimo.
foto Rosellina Garbo