La somma e il totale
di Roberta Pedrotti
Con la compagnia alternativa, per quanto non esente da limiti, e il ristabilirsi del concertatore il Rigoletto bolognese ritrova la coesione musicale che era mancata alla prima.
Leggi la recensione della prima con Marco Caria, Celso Albelo e Irina Lungu
BOLOGNA, 9 novembre 2016 - Il bello nel teatro e soprattutto nell’opera, dove gli elementi in gioco sono molti di più, è che la somma non fa il totale: si può sempre essere sorpresi da un imprevisto, una combinazione, dall’essenza dialettica e non dogmatica dell’arte, dall'imperscrutabilità del fattore umano. Non immacolato, lungi dall’entusiasmare, il Rigoletto bolognese con i tre protagonisti alternativi sembra quasi un altro spettacolo rispetto alla prima: svanisce quell’atmosfera di incertezza e precarietà e si ha perlomeno l’impressione di una recita provata come si deve, di un’intenzione condivisa.
Intendiamoci, non ci folgora l’epifania di chissà quale genio artistico sul palcoscenico e il comparto dei comprimari (tutti invariati, da quelli che tanto secondari non sono, come Sparafucile e Maddalena, fino all’ottimo Usciere di Castagnaro, sempre soverchiante sul Monterone meschinello di Patucelli) non si risolleva rispetto ai brividi tutt’altro che positivi della prima. Però, questa sera, abbiamo veramente un direttore: l’annuncio di indisposizione fatto alla prima e non alla seconda lo dichiara in atto formale e ufficiale, l’atto pratico e concreto è che alla prima l’opera procedeva fra scatti e strane pause, incertezze e squilibri svaniti alla seconda. È effettivamente tornato un polso di concertatore, l’orchestra suona bene, più equilibrata, non copre mai il canto, sviluppa con maggior fluidità il discorso drammatico, accompagnando giustamente con ritmi meccanici i meccanici gesti delle donne-automa (Gilda compresa), ma senza eccedere nella didascalia né forzare la metrica e la dinamica verdiane. Certo, Palumbo ama abbracciare tempi estremi, da un “Veglia o donna” quasi immobile ad alcune strette davvero elettriche, ma lo fa senza sbalzi o singhiozzi, in un discorso continuo retto da una sua logica interna che sentiamo ora coerentemente realizzata in sintonia con gli interpreti e con piena cura dei dettagli.
Il cambio di registro è eclatante, per esempio, nell’ingresso di Rigoletto nel secondo atto, fin troppo sobbalzante al debutto, ora mosso con gusto più sottile e calibrato, così come assai meglio sviluppato è il crescendo di “Oh, tu che la festa audace hai turbato”. E se “Cortigiani” resta decisamente impetuosa, l’accordo con Vladimir Stoyanov è ben altrimenti affinato ed efficace, sì da evitare le brusche frenate e le impennate della sera precedente.
Proprio Stoyanov è un punto di forza della serata, giacché, baritono essenzialmente lirico, dimostra quantomeno una piena coscienza dei propri limiti, non forza e si attiene a una linea sobria e misurata concentrandosi su accento e fraseggio, senza comunque trascurare pathos e puntature. Risulta davvero incomprensibile come, con una tale differenza qualitativa, il baritono bulgaro non sia stato previsto in prima compagnia.
Al suo fianco c’è Scilla Cristiano, soprano bolognese al suo debutto operistico al Comunale (dove aveva cantato, comunque, di fronte a Joan Sutherland nella serata per l’assegnazione della Siòla d’oro alla Stupenda) e dunque festeggiatissima profeta in patria. Gli acuti estremi risultano un po’ troppo tesi e asprigni, ma al suo attivo può vantare una totale adesione anche scenica allo spettacolo, nonché, soprattutto, un'intima familiarità con il ruolo. È evidente che "Caro nome" è il suo cavallo di battaglia da sempre e che sente Gilda nel sangue.
Raffaele Abete può avere un tesoro in gola, con tutto il potenziale per un ottimo Duca: giusto peso vocale, una certa luminosità del timbro, slancio nell’acuto, un’istintiva propensione per un fraseggio elegante e sfumato, buona presenza e scioltezza scenica. Proprio per questo ci auguriamo con tutto il cuore che non ceda alle sirene di una carriera precoce con il rischio di bruciarsi nel lampo di una meteora. La tecnica, infatti, non è matura, gli acuti sono generalmente ben impostati, anche se non sempre sostenuti nell’ascesa da un’emissione ancora in via di assestamento, con i centri non bene a fuoco e nei quali compare un ruvido vibrato sospetto. L’attacco mal riuscito di “Parmi veder le lagrime”, spietata cartina tornasole dell’organizzazione vocale di un tenore, scombina un po’ la resa di tutta l’aria, anche se non gli manca la presenza di spirito per riprendersi nel terzo atto. E quindi, studi, studi, studi ancora d’uno studio matto e disperatissimo, ché ne vale davvero la pena.
Nel nuovo clima si apprezza più serenamente anche la bella prova del coro preparato da Andrea Faidutti e molte intenzioni registiche, meglio assimilate da protagonisti e, quindi, decisamente più efficaci e incisive, per esempio nel duetto fra il Duca e Gilda. La qualità dell'allestimento scenico firmato da Alessio Pizzech resta, peraltro, la più solida costante della produzione.
Senza tensioni, un pubblico composto in gran parte da giovani che hanno approfittato della promozione loro riservata saluta festoso tutto il cast (esclusa Maddalena, Rossana Rinaldi, che non si è presentata ai saluti finali: ci auguriamo non abbia avuto problemi).
In questo caso si può ben dire che il gioco di squadra è valso, per i limiti individuali, la piena concessione dell’attenuante.