Il crisma e la corona
di Roberta Pedrotti
Anna Bolena, considerata terreno pressoché esclusivo per fuoriclasse consacrati, torna al Regio di Parma in un'edizione senza stelle, per certi versi irrisolta, ma con qualche conforto della dedizione della professionalità, nella forza nell'esperienza e in promettenti imprevisti fortunati.
PARMA 17 gennaio 2017 - Il crisma, l’unzione che consacra un sovrano, ne sancisce ufficialmente il carisma, etimologicamente dono, grazia, vale a dire una virtù innata che distingue in qualche modo chi la possegga. Oggi di monarchi consacrati “per grazia divina” non se ne trovano più moltissimi a reggere le sorti delle nazioni, ma crismi e carismi hanno sempre la loro importanza per chi sale sul palcoscenico, dove le luci della ribalta possono far risplendere una corona di cartapesta più delle insegne di un potere effettivo e il fascino supremo di alcuni ruoli sembra esigere, conditio sine qua non, la predestinazione del carisma.
Anna Bolena è fra questi, ma nulla è imprevedibile e sorprendente come il teatro, che può elevare a tanto trono, democraticamente, la dedizione più del carisma. Yolanda Auyanet, infatti, è una professionista autentica, della quale non si può non lodare la serietà dello studio e della preparazione, la cura delle variazioni, la consapevolezza dei propri mezzi, la certezza della tenuta; tutte virtù preziose, che assicurano sonni tranquilli a pubblico e direzioni artistiche, anche se magari ciò vorrà dire non fibrillare nell’attesa o nel ricordo inebriante. Le sue carte migliori non si giocheranno nel virtuosismo più alato della cavatina, bensì quando il dramma comincia a innescarsi e a precipitare, nel secondo atto; se l’acuto, poi, non è mai stato privilegiato, non dispiace certo trovare una consistenza maggiore del consueto nel centro e del grave in una parte scritta per un soprano dal baricentro piuttosto basso come Giuditta Pasta. Trova così la sua efficacia anche senza le doti vocali fuori dal comune o gli accenti indimenticabili di una personalità straordinaria.
Chi di carisma ne ha e ne ha sempre avuto da vendere sul palcoscenico è sempre stato Alfonso Antoniozzi, il quale però sembra in quest’occasione rimanere nei panni di ottimo cantante attore senza ricevere il crisma di regista vero e proprio. La sensazione è esattamente quella di uno spettacolo concordato con un collega complice più che con un regista con il quale porsi in rapporto dialettico, confrontando, nel reciproco rispetto ma anche da prospettive e con stimoli differenti, diverse professionalità. Giovanna Seymour, per esempio, è subito caratterizzata visivamente in un vestitino nero che la individua come la più dimessa, forse la più ingenua o presunta tale, fra le dame di corte, tutte in serici abiti da sera. Il punto di partenza, però, non sembra svilupparsi oltre e ci pare di non vedere altro che Sonia Ganassi riproporre un personaggio che canta da vent’anni almeno. Anche nel momento chiave del duetto del primo atto non si ravvisa nessun rapporto di seduzione fra lei ed Enrico, eppure lì si gioca lo snodo della loro relazione che porterà a innescare la rovina di Anna. Giovanna può essere vittima, maliarda o entrambe le cose, ma quale che sia la strada intrapresa dal regista si dovrà avvertire una tensione che qui latitava nel semplice, scolastico, comodo avvicinarsi, allontanarsi, scambiarsi di un basso e un mezzosoprano. Certo, bisogna ben dire che, colpito da un attacco di afonia, Marco Spotti ha potuto solo mimare il ruolo del re Tudor, sostenuto vocalmente da un provvidenziale Riccardo Zanellato, e possiamo concedergli l’attenuante dell’impaccio nel non poter legare il gesto alla parola, ma se tutto quel che ci ha mostrato (anche qui, dopo un promettente primo colpo d’occhio alla Rhett Butler stanco e sfiorito) è stato levare la mano al cielo e poco altro, tanto sarebbe valso infilare la sua vestaglia e la sua pelliccia al pure alto ma più robusto collega e avere un Enrico VIII che cantasse e recitasse, per quanto limitatamente, allo stesso tempo. Così, è pur vero che Giulio Pelligra è giunto in extremis alla vigilia della prima per sostituire l’indisposto Maxim Mironov come Percy, ma l’impaccio dell’unico momento d’azione in un’opera altrimenti basata quasi esclusivamente su confronti psicologici, vale a dire il tempo d’attacco del finale primo in cui dovrebbe scontrarsi con Smeton, pare comunque eccessivo, incolpevole il tenore. Tutte le scene d’assieme sono, infatti, piuttosto statiche e schematiche, mosse più che altro dalla presenza di mimi, quattro dame (forse allusione alle altre consorti, passate e future, di Enrico, forse spettri degli intrighi, insinuazioni e ambizioni di corte) e quattro uomini in gorgiera e maschera di rapace (un potere instabilmente fondato sulla lussuria maschile che si ritorce contro chi lo detiene). Intuizioni, più che altro, lanciate e condivise con il costumista Gianluca Falaschi, la scenografa Monica Manganelli, nonché il curatore luci Luciano Novelli, l’assistente e coreografo Sergio Paladino e, naturalmente, il cast tutto. Ma l’articolazione drammaturgica di una regia forte, strutturata, in cui idee e simboli si evolvono e si mettono in relazione, è parsa evanescente. Resta l’idea della maschera di Anna, costretta a dissimulare nel suo ruolo di regina consorte, raccolta da Smeton (il monile fatale) ed ereditata da Giovanna con la nuova corona, ma si tratta comunque di un simbolo intorno al quale non si sviluppa un’azione teatrale avvincente, una recitazione dettagliata e intrigante.
Al di là delle prove attoriali senza guizzi o sorprese, riconosciamo a Sonia Ganassi il valore dell’esperienza nel delineare il personaggio e reggere musicalmente una vocalità un po’ avvizzita nel legato, in cui resiste seppur asciugato registro acuto e l’agilità rimane sempre accarezzata con le labbra; di Giulio Pelligra non si può che lodare la sicurezza nell'affrontare una parte tanto impervia, sicché anche nei momenti meno brillanti comunica sempre la chiara e rassicurante sensazione di un consapevole dominio dei propri mezzi. È davvero un peccato che in platea per i suoi sovracuti così ben legati ed emessi sembri serpeggiare l'eco dell'antica diffidenza per un certo tenore bussetano che osò smorzare il Si bemolle di Radames. Noi, Pelligra, ci auguriamo intanto di riascoltarlo presto e con più agio. Nondimeno sarà interessante risentire Martina Belli, promettente mezzosoprano, qui uno Smeton decisamente più femminile che androgino, a voler esaltare, si direbbe, soprattutto il fisico da mannequin dell'artista. Alessandro Viola, Hervey, e Paolo Battaglia, Rocheford, fanno il loro dovere.
Non di crismi, corone e carismi si parlerà, infine, per Fabrizio Maria Carminati, il quale i suoi galloni se li è meritati sul campo di una lunga militanza donizettiana al seguito di Gavazzeni e Campanella. Generali insigni per tante ragioni, dai quali però sarebbe stato meglio non emulare la disinvoltura con le forbici: dopo un'introduzione che ci fa ben sperare in questo senso, cominciano progressivamente a cadere non numeri interi, ma battute qua e là, con il rischio tangibile di alterare l'equilibrio interno della partitura senza il guadagno d'un qualche sensibile alleggerimento di durate o fatiche vocali. Con un tenore subentrato solo alla prima e un basso giunto a poche ore dalla recita, non v'è dubbio che la priorità, poi, fosse di assicurare chiari punti di riferimento e far quadrare tutti i conti, pur tuttavia un po' di varietà e fantasia in più negli accompagnamenti non sarebbe spiaciuta. In una lettura in sintonia con le atmosfere ombrose della scena, l'Orchestra Regionale dell'Emilia Romagna risuona compatta e affidabile, così come il coro preparato da Martino Faggiani, ben attento alla parola, anche se meno ispirato che in altre occasioni.
Mentre gli applausi accolgono "Coppia iniqua" (al solito, più energica invettiva che effettivo regale perdono) qualcuno, fra le poltrone di platea si chiede se l'opera sia finita: Anna Bolena mancava da Parma da quarant'anni, e il disorientamento di taluni, solo in parte mitigato dal rassicurante cicaleggiare scartocciando caramelle, è evidente.