Miraggi nel deserto
di Roberta Pedrotti
L'inaugurazione della stagione bolognese con l'attesissimo Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio) coprodotto con Aix en Provence e Bremen, nonostante il potenziale dell'assunto di partenza, non sviluppa l'interesse sperato. Sul podio, per la prima volta al Comunale per un'opera, Nikolaj Znaider.
BOLOGNA, 20 gennaio 2017 - Nell’imminenza dell’apertura della stagione lirica bolognese si erano armate diverse schiere ben agguerrite: da un lato, lancia in resta, i difensori della tradizione a tutti i costi, gli alfieri dell’opera come eterno ritorno del medesimo concerto in costume; dall’altro, pronti a difendere il terreno senza cedere di un metro, i paladini di un teatro musicale libero di rinnovarsi nel tempo; a osservare, ma pronte a intervenire, bande dedite alla cronaca e al gossip, interessate più che alle sorti del Singspiel mozartiano a scandali e ripercussioni di riferimenti all’attualità (e già pasciuti della decisione della Prefettura di assicurare sull’accesso al teatro con controlli di polizia). Un frenetico viavai di dispacci alimenta l’attesa con un dibattito preventivo ai limiti del surreale, tanto più che, alla fin fine, la montagna partorisce un topolino e dopo la recita, di questo Entführung aus dem Serail non resta molto da dire.
Fa piacere che il Comunale di Bologna abbia deciso di coprodurre con Aix en Provence e Bremen il lavoro di un regista di respiro internazionale quale Martin Kusej, già autore di allestimenti memorabili come La forza del destino monacense [leggi]. Tuttavia il risultato non sembra proprio all’altezza delle aspettative, si ferma alla superficie dell’ambientazione e non spicca il volo.
Peccato perché l’assunto di base lasciava davvero ben sperare: la moda settecentesca delle turcherie esorcizza, addomestica e rielabora il terrore ancora ben vivo dell’assedio di Vienna del 1683. Fino ai giorni nostri il rapporto fra l’Europa e il mondo islamico (troppo spesso visto come un blocco unico e indistinto) vede rinnovare problematiche simili e non solo è possibile leggere il Singspiel in un’ottica più seria, senza sottovalutare le minacce di Osmin e i pericoli corsi dalle coppie protagoniste e lasciando ai margini i tratti di commedia, ma anche associare quelle inquietudini all’attualità, quel soggetto al contesto in cui, circa un secolo fa, hanno cominciato a delinearsi gli attuali rapporti di forza mediorientali, quando le potenze europee si sono gettate sulle spoglie dell’impero ottomano. Niente più fiabesca Turchia, quindi, ma un duro deserto arabo in tempo di guerra, mentre qualche rivisitazione al testo parlato, a cura di Albert Ostermaier, aggiusta il rapporto fra parola e azione e rafforza la collocazione spazio temporale, ma senza interventi troppo radicali: rimaniamo, insomma, per lo più nell’ambito di varianti di routine teatrale, innocue soprattutto nella libertà metrica dei parlati. Anzi, il problema è proprio nella sostanza innocua dell’operazione, che non va oltre il racconto della solita storia collocata intorno a una tenda nel deserto invece che in un palazzo turco. Dalla firma di Kusej – che qui si affida a Herbert Stöger per la realizzazione – ci saremmo aspettati una recitazione più accurata e originale, che illuminasse i rapporti psicologici e le dinamiche di potere, soprattutto fra il tormentato pascià Selim e l’anima nera Osmin: quando quest’ultimo, sulle ultime battute, dimostra di aver disatteso l’ordine di clemenza e decapitato i quattro prigionieri l’effetto, più che prepotente e perturbante, è di un discorso incompiuto, cui manchino degli elementi per trasmettere un messaggio. Ed è un peccato ancor maggiore perché l’altra faccia della turcheria settecentesca è rappresentata dall’interesse illuminista per le altre culture, dallo sguardo relativo delle Lettres persanes di Montesquieu, dalla superiorità morale di Selim: allora, rapportato all’attualità e alla nostra sensibilità, uno sviluppo più profondo del rapporto e del contrasto fra il pascià e il suo primo attendente avrebbe potuto aprire prospettive di grande valore.
Per contro, se l’ambiente desertico con i suoi falò e il cielo dipinto su fondale panoramico è sempre suggestivo, il proiettarsi persistente delle ombre degli interpreti su quello stesso cielo sciupa il realismo senza aprire squarci metateatrali, il procedere dell’ultimo atto – che è comunque il più curato nella concezione – per quadri intervallati da istanti di buio totale, come spezzoni montati in sequenza con brevi cesure, appare un po’ troppo ingenuo per l’impegno che si vorrebbe infondere nella produzione.
Bisogna dare atto di aver cercato la massima sintonia fra musica e azione a Nikolaj Znaider, gradita frequente presenza sul podio sinfonico del Comunale al debutto cittadino nell’opera quale consacrazione ideale, ci piace augurare, a direttore ospite principale in pectore (ché il ruolo sarebbe già ricoperto, di rappresentanza, da altri). Il suo Entführung non è smagliante di colori esotici, non evoca gli arabeschi del Topkapi, bensì un dramma nel deserto, dai contorni più compatti, dalle sfumature meno sgargianti, dai tempi più dilatati. Conferma la padronanza tecnica, la sicurezza, la competenza per le quali l’abbiamo sempre apprezzato in concerto, cui somma ora una buona sensibilità al teatro e al canto, che saremmo curiosi di veder sviluppate in nuove occasioni, saggiandone la versatilità.
Qui, purtroppo, incontra un cast non proprio impeccabile – anche a non considerare le possibili trappole acustiche della distesa sabbiosa fonoassorbente: non si tratta solo di volume – con gli estremi qualitativi posti anche agli estremi dei registri. Il migliore è, infatti, il basso Mika Kares, sicuro in tutta l’estesa tessitura di Osmin, efficace nel conferire tratti debitamente sinistri anche ai passi di norma più leggeri se non comici (si pensi al tono noncurante e minaccioso dei suoi irridenti “ Tralallera”). La meno convincente è Cornelia Götz, Konstanze dalla vocina puntuta da soubrette, sfocata nelle colorature, scialba nella musicalità là dove il ruolo esigerebbe una primadonna di classe assoluta. Julia Bauer, nondimeno, è una Blonde di smalto decisamente limitato, mentre Bernald Berchtold arranca nelle nobili fioriture di Belmonte, perdendo autorità musicale e interpretativa, e se Johannes Chum, Pedrillo, può permettersi di esprimere una certa vivacità al centro, quando la tessitura sale e richiede spavalderia come in “Frisch zum Kampfe” sembra perdere il giusto giro dell’acuto, risolvendo meglio la serenata (qui quasi un delirio durante il tentativo di fuga nel deserto) del terz’atto. Karl-Heinz Macek, infine, è un inquieto Selim salutato come si conviene dal coro del Comunale, confinato in buca con effetti alterni: superfluo quando accompagna, nel primo atto, lo scatto di fotografie propagandistiche dei guerrieri con gli ostaggi, potenzialmente notevole quando avvolge la solitudine del pascià nell’epilogo. Valerio Ameli, Arjuna Colzani, Oussama Mansour, Luca Nava, Rodolfo Salustri, Roberto Serafini sono i “soldati neri”, Annette Murschetz, Heide Kastler e Reinhard Traub si occupano rispettivamente di scene, costumi e luci.
Al termine, l’unico epilogo che non avremmo mai potuto prevedere: le schiere agguerrite da giorni depongono le armi e congedano gli artisti con qualche scialbo battimani e un paio di ancor più scialbi mugugni. Peccato: il dibattito, sano e non preventivo, è il sale dell’arte e qui si è spento prima che calasse il sipario. Speriamo solo che un esito al di sotto delle aspettative, quale può sempre capitare, non distolga il Comunale e i teatri italiani in genere dall’apertura verso orizzonti internazionali vivi e mobili.
foto Rocco Casaluci