L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Michele Pertusi, Rosa Feola, edgardo Rocha, Teresa iervolino

L'enigma della Gazza

 di Pietro Gandetto

Con una prima dedicata alla memoria di Alberto Zedda, La gazza ladra fa il suo ritorno al teatro alla Scala, dove aveva debuttato duecento anni fa. La produzione offre, nella lettura di Chailly e Salvatores, spunti di riflessione sul teatro rossiniano, enigmatico oggetto di interpretazioni che non potranno mai definirsi univoche e definitive. Nel cast spiccano le prove di Esposito, Pertusi e Rocha.

Interviste, Edgardo Rocha

Milano, 12 aprile 2017 - Ritorna al Piermarini La gazza ladra di Gioacchino Rossini, che, dopo centosettantasei anni di oblio scaligero e a duecento dalla prima assoluta del 1817 nello stesso teatro, divide il pubblico. Come dimostrano le reazioni dei loggionisti più integralisti in cerca di visibilità, la produzione firmata da Gabriele Salvatores e Riccardo Chailly ha lasciato il segno e rappresenta una tappa importante in quell’ideale stagione d’opera che si sviluppa attraverso le più significative produzioni dei teatri di tutto il mondo che il melomane esperto ben conosce e considera come eventi imperdibili. Dispiace solo che le contestazioni di un branco d’invasati abbiano avuto tale enfatica eco nei giorni seguenti. Non perché il diritto di critica non sia sacrosanto (art. 21 della Costituzione), ma perché dando tanto spazio a questi episodi si rischia di perdere di vista il vero valore di questo spettacolo.

La lettura di Riccardo Chailly, tanto contestata quanto osannata, in realtà andrebbe presa per quello che è, e cioè un tentativo ben riuscito di interpretare Rossini oggi. Vittime di luoghi comuni, non del tutto infondati ma altrettanto restii a morire, e prigionieri di un mito del belcanto che spesso banalizza a spicciola comicità ed esuberante virtuosismo la grandezza di un autore che resta sempre indagare e scoprire senza sosta, si dovrebbe abbandonare la presunzione di ritenere che esista un modo univoco, quale che sia, di eseguire Rossini. Come dimostrano altre recenti, riuscite produzioni in questo ambito (per esempio Semiramide a Monaco, leggi la recensione), aspettarsi a tutti i costi ironia, brillantezza, volumi tenui o chissà quale altro paradigma precostituito, è un errore da principianti, che trascura l'ambiguità insita nel teatro rossiniano, lo spettro di possibilità interpretative che possono partire solo da quella fedeltà al testo che Chailly ha perseguito. A maggior ragione ciò vale per La gazza ladra, che negli ultimi cento anni è stata poco rappresentata e sicuramente non abbastanza per poter dire di avere assimilato in qualche modo una tradizione: i codici estetici dell'opera semiseria sono antichi (pur nella loro modernità potenziale) e comunque inusuali per l’ascoltatore contemporaneo. Soprattutto per un pubblico come quello milanese che, forse anche inconsciamente, associa Rossini al Barbiere, al Turco in Italia e all’Italiana in Algeri.

Su questa premessa, si condivide quindi la lettura di Chailly caratterizzata da un buon mordente drammatico nei momenti più tragici dell’opera, da una buona tenuta d'insieme, e un’omogeneità di suono tra le sezioni e tra orchestra e voci. La modulazione dinamica è parsa rispettosa delle voci, sia in rapporto alla scena, ad esempio in una marcia funebre marcatamente enfatica, sia in relazione alle caratteristiche degli interpreti, come ad esempio nell’"Ed io la credea l'istessa onestà" di Giannetto, sussurrato da Edgardo Rocha prima in voce e poi in falsetto e così soave da togliere il fiato.

La regia di Salvatores ha il grande pregio di lasciare ampio spazio agli interpreti, che sono parsi realmente liberi di muoversi, ma soprattutto di dare quello spessore psicologico che Rossini stesso ha conferito a personaggi fortemente caratterizzati nei loro contrasti.  Il palcoscenico è concepito da Salvatores come un grande schermo, diretto dal vero regista dell’opera, la gazza ladra, che diventa una sorta madeleine di Proust: ogni sua azione corrisponde a un “assaggio” che evoca un ricordo nascosto. Così la simpatica gazza apre un sipario per far vedere il disertore Fernando, spinge la grande ruota che fa scendere l’albero dietro al quale si nasconde, lo spinge a costituirsi, aiuta Pippo a scoprire dov’è la refurtiva. La gazza è Francesca Alberti, professionista di riferimento nelle acrobazie aeree, onnipresente in scena e protagonista di evoluzioni spettacolari.

Gian Maurizio Fercioni propone una scenografia composta da un edificio a quattro livelli (evidente omaggio al milanesissimo e ottocentesco Teatro Fossati, oggi Piccolo Studio), che ora è nascondiglio della gazza, ora prigione di Ninetta e ora spalto da cui i magistrati togati, istruita sommariamente la causa penale, pronunciano la sentenza di condanna. Non tutto è impeccabile in questo allestimento, come il mantello da conte Dracula del Podestà che avvolge Ninetta, che ci aspetteremmo di trovare in una recita per bambini e non alla Scala, o l'altra madeleine di Proust nel finale, con la marcia funebre di Ninetta che ricorda fin troppo l'epilogo della Carmen di Emma Dante. Lo spettacolo, tuttavia, ben rende conto degli attuali punti di riferimento della lettura musicale e teatrale di Rossini. 

Nel cast, abbondano i talenti: su tutti, Alex Esposito sembra migliorare di opera in opera. La voce è elastica, rotonda e sonora e i suoi personaggi sono sempre più intensi e rifiniti. Fernando è magnetico sia nei passaggi di maggior lirismo (come nelle scene di confronto con la figlia), sia in quelli più marziali (come negli scontri con il Podestà). Anche il citato Edgardo Rocha convince appieno sia per gli acuti svettanti e la duttilità vocale ben plasmata sul dettato rossiniano, sia per la resa del personaggio in tutta la sua ambiguità di militare e innamorato capace di dubitare dell'onestà dell'amata, fra rigido codice morale e sentimenti più intimi.

Michele Pertusi è un ottimo Podestà. L’ampia vocalità è capace di sostenere anche passaggi a mezza voce con un buon legato e conferisce l’esatta dimensione a un personaggio in bilico tra la protervia della carica ricoperta e la comicità della goffaggine in propositi e azioni.

Rosa Feola dà vita a una Ninetta caratterizzata da una grande personalità. Vocalmente, la tessitura non certo acuta del ruolo viene gestita con cura e precisione, una dizione cristallina e begli accenti musicali. È forse mancata quella punta di remissiva sensualità e di fanciullesco candore tipiche del personaggio.

Molto ben sviluppata la Lucia di Teresa Iervolino, dotata di una voce dal timbro forse non inconfondibile, ma ben messa al servizio della trasformazione da suocera restia a consegnare il figlio a una cameriera ad amorevole, pentita sacerdotessa dell’unione dei due giovani.

Meno convincente Serena Malfi, che è parsa quasi impercettibile nel registro grave. Peccato perché la sua Despina di qualche anno fa alla Scala ci era piaciuta molto. Analogamente poco incisivo il Fabrizio di Paolo Bordogna, che ha comunque ben reso la genuina bontà paternalistica del personaggio.

Nel comprimariato, Matteo Macchioni è un ottimo Isacco, in virtù di una vocalità tenorile di prim’ordine, pronta per ruoli ben più impegnativi di questo. Nondimeno Matteo Mezzaro che dà rilievo all’umanità del carceriere Antonio. Completavano il cast Giovanni Romeo nel ruolo di Ernesto e Claudio Levantino in quello di Giorgio / Il Pretore.

Il coro diretto da Bruno Casoni è parso in gran forma.

Alla fine fischi per quasi tutti senza necessità di specificare chi e cosa è stato salvato. Quel che vale la pena evidenziare è che, come in tutte le cose, anche nelle contestazioni, per essere credibili bisogna essere coerenti, con il proprio presente, il proprio passato e con quello che si contesta. Il successo c’è comunque stato, in un’opera tra le più impegnative e meno note del repertorio. 

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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