Una serie di errori
di Giuseppe Guggino
Nella sfortunata edizione di Anna Bolena in scena al Teatro Alla Scala, tra errori di cast, regia e podio, si afferma Federica Lombardi, subentrata per alcune recite nel ruolo eponimo a Hibla Gerzmava. Ed è successo personale.
Milano, 8 aprile 2017 - La drammaturgia del teatro d’opera di primo Ottocento ha le sue convenienze e inconvenzienze, il suo lessico fatto di scene-stereotipo, la sua sintassi (che Dahlhaus chiamava “struttura temporale”); insomma il suo codice, la sua grammatica. In quel linguaggio, ad esempio, il ripetersi incalzante di una nota acciaccata affidata ai celli e contrabbassi è inequivocabile traduzione in musica dello scalpitio del destriero di Percy che sta per sopraggiungere [qui lo spartito]
Orbene, se però Percy si presenta in scena non già alla fine della progressione bensì al suo avvio (e se ciò si verifica sistematicamente in tutte le sortite), è chiaro come Marie-Louise Bischofberger, debuttante nella regia d’opera italiana di primo ottocento con questo allestimento dell’Opéra National de Bordeaux, evidentemente ripreso senza troppi correttivi, dovrebbe accuratamente meditare sull’opportunità di proseguire in un ambito nel quale la comprensione dell’orizzonte semantico musicale, tutt’altro che criptico anzi sovente convenzionale, è però un dato di partenza imprescindibile. Non si tratta di dettagli, o almeno non solamente. Si tratta della debolezza su tutti i fronti di uno spettacolo dalla cornice vacua (e, alla Scala lo sanno, per comprendere quanto possa essere pregno di significato un quadrato/cubo sbilenco basta citofonare Graham Vick) nella quale il minimalismo degli elementi d’attrezzeria rende involontariamente comico lo sviluppo di qualsivoglia azione (Smeton al finale primo, non avendo dove nascondersi, scappa in quinta!). Si deve attendere il terzetto del secondo atto per comprendere l’identità della bimba bionda intenta a giocare a palla nella sortita di Percy (perché proprio in quel momento?), ma neanche la cerebralità di riempire la scena anche con la piccola Elisabetta I serve a risollevare le sorti di uno spettacolo che deve ricorrere a una citazione del Don Carlo di Visconti per delineare in qualche modo la regalità di Enrico VIII, facendolo accompagnare da due levrieri. Dimenticando le dimenticabilissime scene di Eric Wonder e le luci di Bertrand Couderc, non rimangono che i convincenti (nonostante qualche svarione) costumi di Kaspar Glarner, almeno fino al coronamento finale del travisamento: Enrico VIII e Seymour improbabilmente abbigliati, impegnati in una sorta di mazurka piuttosto fuori luogo e un “Coppia iniqua” di Anna di nero velata, costretta ad aggirarsi in scena come un’Erinni, nonostante il testo intonato invochi il perdono.
Agli errori dei vertici della Scala nel non saper rimediare a un allestimento infelice si sommano quelli nel non aver percepito l’assoluta inadeguatezza del podio a creare atmosfere (se non per qualche frase sporadica, verosimilmente dovuta all’iniziativa individuale di qualche prima parte), giacché Ion Marin per l’intera serata è capace solamente di una folle corsa nel cercare di chiudere prima possibile, tagliando, per di più malamente. Si tace poi dell’apporto della Fondazione Donizetti, giacché oltre ai tagli cospicui, alle parche variazioni (sul cui gusto nessuno pare aver vigilato), alle pesanti riscritture semplificative per Enrico e Percy, si è persa l’occasione non solo di ascoltare il duetto alternativo Anna-Percy o una differente versione della stretta del terzetto, cosa che avrebbe conferito a queste serate quantomeno l’elemento di interesse del capriccio della rarità.
Degli errori di cast s’è già detto nel riferire della prima [leggi la recensione]. L’unico elemento variato in alcune repliche è l’affidare il ruolo eponimo alla giovane Federica Lombardi; e anche qui gli errori della Scala si sprecano. Trovandosi sguarniti di una primadonna ma con una giovane a disposizione dal materiale di prim’ordine, anziché cercare a tutti i costi un altro soprano con qualche anno in più di carriera, si sarebbe dovuto puntare il tutto per tutto sull’esordiente, un po’ come nella Carmen che rivelò Anita Rachvelishvili. Certo, una strategia emergenziale che avrebbe potuto funzionare solamente sostenendo in tutti i modi possibili la Lombardi, in primo luogo affidandola alle mani di un direttore di sicura esperienza in questo repertorio, affiancandole una guida nello studio del ruolo, consentendole di provare per tutto il tempo necessario; invece l’ultimo di una lunga serie di errori della dirigenza scaligera è stato quella di lasciarla allo sbando in una produzione della quale nessuno pare rivendicare la paternità, sicché il successo personale ottenuto, in un certo senso, ha valore doppio.
La voce è importante, i centri sono ampi, c’è la consapevolezza di gestire una frase musicale legata, si intravede il temperamento coniugato a una certa intelligenza interpretativa; ci sono però anche i difetti, in primo luogo un vibrato di entità variabile con il grado di stanchezza, ma anche la perdita di controllo sui do acuti, sempre spinti al limite del grido. L’augurio è che il successo, indubitabilmente importante e ampiamente condivisibile, sia il viatico per la prosecuzione di un percorso di crescita artistica e tecnica; viceversa, come nel caso di qualche altra Anna Bolena scaligera “di ripiego”, il rischio di prossimi cimenti altrettanto o più onerosi (leggasi altri ruoli Pasta o Méric-Lalande) sarebbe quello di un’involuzione a parabola di brevissima gittata. In altre parole, il temperamento c’è, la voce pure (e di prim’ordine); se c’è anche l’intelligenza lo capiremo fra due o tre anni. Ad maiora!
foto Brescia Amisano