La malia di Macbeth
di Antonino Trotta
Chiude la stagione 2016/2017 del Teatro Regio di Torino il Macbeth di Giuseppe Verdi, allestimento in coproduzione con il Teatro Massimo di Palermo che riscuote molto successo nel teatro del capoluogo piemontese.
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TORINO, 2 LUGLIO 2017 – Approda a Torino il Macbeth di Giuseppe Verdi, gran finale della stagione 2016/2017 intavolata dal Teatro Regio. Lo spettacolo confezionato da Emma Dante offre una lettura del lavoro verdiano di grande effetto scenico e accompagna il pubblico in un viaggio dantesco, partendo da una realtà molto gotica e stregonesca per approdare nei meandri più introspettivi della psicologia dei personaggi. Il continuo rimbalzare tra mondo esterno e realtà interiore arricchisce la regia di spunti interessanti, ma la presenza si svariati meccanismi drammaturgici che non sempre ingranano perfettamente tra di loro rende la macchina teatrale cigolante in diversi momenti. Primo punto forte di questo allestimento è rappresentato dalla compagnia di Emma Dante e dagli allievi della Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo, che conferiscono alla regia un’impostazione fortemente teatrale, leggermente ingombrante, che cattura immediatamente l’attenzione del pubblico grazie ai movimenti scenici e alle danze dalla presa immediata.
Nella lettura di Emma Dante il mondo femminile è presentato con sfaccettature acutamente demoniache: le streghe, che nei costumi e movimenti convulsivi ricordano Samara di The Ring, sono creature sataniche continuamente impegnate nell’«opra senza nome», la perpetuazione della loro specie che avviene in maniera molto meccanica, animalesca (nella scena di apertura le streghe sono protagoniste in un baccanale durante il quale si accoppiano con altre creature sataniche, mentre nel terzo atto partoriscono in due grossi calderoni). Anche Lady Macbeth, in accordo con l’idea di Verdi secondo il quale ella dovesse “strisciare sul palcoscenico con caratteri da demone più che da donna”, è una figura molto sinistra priva di ogni regalità.
Molti gli elementi simbolici in questo allestimento: in apertura un enorme lenzuolo sporco di sangue, che viene lasciato fluttuare nell’aria e dal quale emergono poi i personaggi come se fosse un fitto banco di nebbia, prelude ai delitti di cui i coniugi si macchieranno. Nella «magnifica sala» una serie di troni di diverse altezze che si incastrano tra loro lascia intravedere la scalata verso il potere che Macbeth ha appena intrapreso, un percorso di sola andata che non ammette redenzione alcuna. Sempre in conclusione del secondo atto, Macbeth, seduto sui gradoni più alti di questa struttura aurea, dispiega il suo mantello che scivola lungo le gradinate su cui sono seduti i commensali, alludendo alla tavola come indicato da libretto. Tra queste idee - che ben sposerebbero una regia “tradizionale” anche nelle scenografie, curate da Carmine Maringola, molto classiche e scevre di pomposi orpelli - si interpongono strutturazioni molto più ambiziose che in definitiva tratteggiano l’essenza di questo spettacolo. Molto interessante la modalità con cui la Dante sottolinea il forte senso di incontrastabile predestinazione e asfissiante fatalità che muove l’intera opera: mentre Macbeth canta «Mi si affaccia un pugnal?», un alter-ego del protagonista compare alle sue spalle porgendogli un pugnale e mostrandogli il delitto da compiere. Un espediente che evidenzia il distacco di Macbeth dal tracciato deciso dalla Lady, un destino accettato passivamente dall’esterno che offre una visione del personaggio shakespeariano in tutta la sua effimera debolezza, un antieroe, quasi fosse il protagonista di un romanzo di Svevo, che nel corso dello sviluppo drammaturgico piomba in uno stato di immobilizzante depressione che lo rende insensibile alla morte della moglie. Anche della Lady viene dipinto il dissidio interiore nella famosa scena del sonnambulismo, qui trasformata nella scena dell’insonnia (la regina si sposta da un lettino all’altro alla maniera di Riccioli d’Oro nella celebre fiaba per bambini): durante «Una macchia… è qui tuttora!» la Lady si trova accerchiata da una corolla di brandine che vorticosamente le rotea intorno come a plasmare il turbinio emotivo che attanaglia la protagonista in quella circostanza. Peccato che queste proiezioni del subconscio non siano state sufficientemente valorizzate da opportune sfumature di luce, curate da Cristian Zucaro, che nel complesso appaiono fredde e statiche.
Tra queste soluzioni si innestano poi elementi la cui assenza non avrebbe gravato sulla riuscita dello spettacolo e che ne costituiscono forse gli eccessi: la presentazione di Ducano martoriato (Francesco Cusumano, mimo e molto giovane, altro che «vegliardo» come affermerà la Lady insonne) come una sorta di Cristo in croce che si sacrifica per il suo popolo e già visto in altre regie della Dante, la foresta di Birnam fatta di fichi d’india che aggiunge una decontestualizzante mediterraneità, i crocifissi a luci led sulle inferriate bronzee che si illuminano nel finale del primo atto, i lettini d’ospedale su cui riposano i protagonisti durante «Fatal mia donna! Un murmure» con una trovata che riduce uno dei momenti più tesi dell’opera a uno sketch da Casa Vianello.
Piuttosto soddisfacente il cast vocale impegnato nell’ultima recita della stagione. Anna Pirozzi dà vita a una Lady Macbeth protervia dal punto di vista vocale e scenico, dimostrando di essere a suo agio nei “ruoli valchiria” di Verdi. Il soprano napoletano esibisce molta intelligenza musicale nella gestione delle dinamiche, resistendo alla tentazione di cantare tutto in forte. La cavatina di ingresso (privata della lettera, che in quest'occasione viene declamata da Macbeth stesso) «Vieni! T’affretta!...Or tutti sorgete, ministri infernali» è affrontata con grande slancio e sicurezza negli acuti, potenti e squillanti. Buona anche la gestione della tessitura grave, molto sollecitata in questo ruolo e in cui la cantante evita di sfociare nel parlato. Nel cantabile «La luce langue» e nell’arioso della scena del sonnambulismo «Una macchia…è qui tuttora» la Pirozzi regala qualche etereo pianissimo, anche se nella sua ultima scena il legato risente un po’ della stanchezza.
Meno convincente è il Macbeth di Dalibor Jenis, che, nonostante la sonorità dello strumento, tratteggia un personaggio poco sfaccettato per dinamiche e fraseggio. Ha comunque ricercato apprezzabili, interessanti intenzioni negli accenti conferiti al testo del libretto. Peccato per la chiusura infelice dell’opera con l’arioso «Mal per me che m’affidai» (proveniente dalla stesura fiorentina dell'opera del 1847 e interpolata, come già a Palermo, in una versione che per il resto è quella parigina del 1865), dove il baritono palesa qualche problema nella tessitura grave.
Molto bello è il Banco del basso Marko Mimica, che sostituisce l’indisposto Vitalij Kowaljow. Mimica è dotato di una voce sonora dal timbro avvolgente e la facile emissione gli consente di restare a fuoco in ogni momento della serata. Particolarmente entusiasmante è la difficile «Come dal ciel precipita», eseguita con grande pathos e carisma.
Non è da meno Piero Pretti, Macduff che, nonostante l’esiguità del ruolo, strappa un caloroso applauso al pubblico torinese grazie ad un’esecuzione molto commovente di «O figli, figli miei!.. Ah! La paterna mano».
Degni di menzione sono Alexandra Zabala nei panni della dama di Lady Macbeth – ruolo che si compone di poche frasi ma che le consente comunque di emergere per la nobiltà del legato nella scena del sonnambulismo e per il bel do assestato in conclusione del primo atto – e Nicolò Ceriani (medico), baritono dalla voce molto potente.
Completano il cast Marco Sportelli (sicario), Lorenzo Battagion (prima apparizione), Francesca Idini (seconda apparizione), Anita Maiocco (terza apparizione) e il mimo Nunzia Lo Presti (Fleanzio).
Colpito da una lombo-sciatalgia, sul podio Gianandrea Noseda è stato sostituito da Giulio Laguzzi, che guida con sicurezza l’orchestra del Teatro Regio. La direzione sostiene e aiuta molto il palcoscenico nei tempi e nell'articolazione delle frasi musicali, costruendo un’architettura di ottimo sostegno al canto. Peccato che, a parte qualche reboante colpo di timpani nel preludio, nel complesso la lettura orchestrale appaia piuttosto piatta e priva di nuance. Manca infatti quel pathos, quel turbinio musicale proprio del “Verdi di Galera”, quella sensazione di mare che si increspa all’arrivo di una tempesta, di incessante inquietudine che pervade l’intera partitura e che emergendo dalla buca avvolge la scena quasi fosse un sinistro banco di nebbia. Ottima la prova del coro del Teatro guidato da Claudio Fenoglio: molto godibile il momento di «Patria oppressa!», durante il quale il coro si distingue per la nettezza dei colori. Molto brave anche le streghe, impegnate costantemente nei movimenti scenici isterici pensati dalla regia.