L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'ora di Violetta

 di Roberta Pedrotti

La traviata proposta per il lodevole progetto OperaNext del Comunale di Bologna patisce purtroppo la concertazione di Hirofumi Yoshida, che certo non è d'aiuto al debutto di giovani interpreti. Anche il collaudato allestimento di Alfonso Antoniozzi appare un po' appannato in questa ripresa.

BOLOGNA 11 luglio 2017 - Le opere facili non esistono, esistono semmai difficoltà diverse che in alcuni casi possono essere affrontate meglio che in altri. La traviata, da questo punto di vista, è un’arma a doppio taglio: la sua popolarità può accendere aspettative ma anche destare indulgenza, la sua incrollabile perfezione musicale e drammaturgica dovrebbe essere una carta sempre vincente, ma anche terribilmente esigente per gli interpreti. Allestire, quindi, La traviata con un cast di giovani è una sfida, non insormontabile ma che comunque dev’essere ben ponderata, in primo luogo nella scelta delle guide musicali e teatrali, del direttore e del regista.

Sul podio, Hirofumi Yoshida sconta in primo luogo un peccato originale: quello di un’anacronistica e grossolana mutilazione dell’opera. Solo per fare qualche sempio, cade la seconda strofa della grande aria di Violetta nel primo atto (“A me fanciulla, un candido”) e possiamo anche rassegnarci, nell’ampiezza che comunque la scena conserva; cade la cabaletta di Germont ed è assai meno sostenibile questo sfregio alla forma classica cui Verdi, qui, fa incarnare espressamente i valori tradizionali del personaggio; cade la seconda strofa di “Addio del passato” (“Le gioie e i dolori fra poco avran fine”) e irrita sentir l’aria ridotta al moncherino d’un paio di minuti; siamo già arresi quando cade la ripresa di “Gran Dio! Morir si giovine!”, troncata in modo assai greve e maldestro, mentre per paradosso – ma è la concezione registica a esigerlo – restano gli interventi finali di Annina, Alfredo, Germont e Grenvil.

Qualcuno potrebbe ipotizzare che le forbici soccorrono i cantanti meno esperti, ma non vogliamo pensare che artisti selezionati per una produzione in un teatro come il Comunale di Bologna e proiettati verso una carriera professionale non potessero affrontare qualche pagina in più, mentre constatiamo quanto sia controproducente – sia per l’equilibrio perfetto della partitura sia per il percorso formativo di un interprete – ricorrere a tanti, sgradevoli (e talora ininfluenti per durate e difficoltà) tagli.

La disinvoltura nel manipolare la partitura, peraltro, coincide nella concertazione di Yoshida con una resa periclitante sotto ogni punto di vista. La modestia dei colori va a braccetto con una sconfortante uniformità dinamica ed espressiva, solo apparentemente increspata da momenti di granitica pesantezza o altri d’insipida evanescenza (e sì che stasera l’orchestra del Comunale sembra anche ben concetrata e tecnicamente a fuoco). Anestetizzare la partitura della Traviata è un traguardo poco invidiabile ma di certo arduo da raggiungere, e Yoshida ci è pienamente riuscito fra scansioni ritmiche pedanti e superficiali e tentativi di rubati e respiri che si perdevano sospesi nel nulla, senza lasciar intravedere un pensiero coerente o almeno un chiaro controllo.

Se la bacchetta non aiuta e, anzi, sarebbe d’impiccio anche per interpreti molto più scafati, la scelta sicura di un allestimento collaudato come quello di Alfonso Antoniozzi sembra garantire sulla carta almeno uno sviluppo teatrale senza intoppi. Alla sua terza apparizione a Bologna, la produzione conferma l’efficacia dell’ambientazione fra riferimenti alla Dolce vita e ad Eyes Wide Schut, così come alcuni dettagli ben trovati (si vede sempre volentieri una Violetta che non si sdilinquisca a terra sotto il peso delle banconte ma affronti l’oltraggio in piedi e con dignità, cosa peraltro frequente negli allestimenti nati per Mariella Devia). Tuttavia tutto appare più stanco e farraginoso, emerge una diffusa genericità attoriale per cui troppi gesti risultano innaturali, compiuti per adempiere a un evidente comando registico, troppe scene appaiono semplicemente statiche là dove l’intenzione evidente sarebbe un’economia d’azione che si focalizzi su sguardi, dettagli, lampi di carisma che si faticano qui oggi a ravvisare.

Da queste premesse, e dalla comprensibile emozione del debutto, ai cantanti non si possono che rivolgere consigli. A Marta Torbidoni di non collezionare un repertorio di ruoli che fanno tremare le vene ai polsi (il suo sito sciorina ruoli che vanno da Fiordiligi alla Trilogia Tudor, da Imogene e Semiramide a Gilda e Leonora del Trovatore), ma di prestare attenzione a un’emissione che si allarga e indurisce senza girar bene nel passaggio nell’ascesa all’acuto, inevitabilmente limitato rispetto a presumibili potenzialità. Emerge così talora anche un vibrato fastidioso, mentre la voce tende a perder mordente proprio là dove il canto dovrebbe farsi più incisivo e perentorio, non solo in meri termini di volume. Difficilmente la sua Violetta emoziona e anche la lettura della lettera risulta troppo asettica. In Marco Ciaponi si avvertono alcune intenzioni espressive più definite, ma se mezzi e impostazione sono promettenti (basti pensare all’insidiosissimo Do ben centrato al termine della cabaletta) si avverte ancora una certa acerbità nel gestire e sostenere sempre legato e fraseggio: sicurezza musicale e maturità vocale devono ancora svilupparsi pienamente con studio costante e impegni graduali.

Veterano in un cast di giovani, Maurizio Leoni ha una sua solidità, ma i ruoli primari verdiani non sono comunque quelli che meglio si attagliano alle sue qualità.

Aloisa Aisenberg, Flora, dovrebbe fare attenzione a non scurire il suono alla ricerca di un ideale mezzosopranile: ne guadagnerebbe, anche nel medesimo registro, per chiarezza di dizione, articolazione musicale e proiezione. Erika Tanaka è ben udibile nei panni di un’Annina che dimostra quasi con insolenza la sua antipatia verso Alfredo, rimpiangendo si presume la bella vita della capitale. Voce chiara, ancora in evoluzione pare quella del Gastone di Giovanni Maria Palmia. Si nota poco il Marchese di Tommaso Caramia, si nota troppo il Barone grossier di Paolo Porfiri. Nicolò Donini è un Grenvil puntuale, Enrico Piccinni Leopardi, Raffaele Costantini e Sandro Pucci completano il cast. Il coro si destreggia con mestiere, Yoshida permettendo, va tuttavia segnalato che l'organico esiguo rende così flebili gli interventi da dietro le quinte da aver fatto supporre perfino il taglio di alcune frasi, a riprova dei danni artistici che gli incerti economici possono arrecare ai teatri.

A questa produzione promossa dalla Scuola dell’Opera Italiana (da cui provengono direttamente Violetta, Flora, Annina, Gastone e il Marchese) per il progetto Opera Next del Teatro Comunale arride comunque un generoso successo nella torrida Bologna di metà luglio. Speriamo sia di buon auspicio, così come speriamo che i limiti attuali siano di monito e stimolo, per futuri sviluppi.


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.