L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Le tinte di Händel alla Scala

 di Francesco Lora

Primo allestimento del Tamerlano nel massimo teatro milanese, con un entusiastico riscontro di pubblico: si impongono le interpretazione di Fagioli, Schiavo e Domingo, mentre la lettura teatrale di Livermore e quella musicale di Fasolis danno adito a qualche rilievo critico.

MILANO, 25 settembre 2017 – Non bisogna lasciarsi ingannare dal sottile gioco di convenienze politiche, teatrali e musicali. Quale che sia l’ordine di uscita degli interpreti agli applausi finali, nel Tamerlano di Händel il titolo spetta all’imperatore dei Tartari solo in virtù dell’essere il più alto nell’esercizio del grado sociale: una convenzione che si ritrova in cento altri libretti, per esempio anche nell’Artaserse o nell’Adriano in Siria di Metastasio; detto questo, Tamerlano rimane l’antagonista nei ruoli della tragedia e il secondo uomo nella gerarchia della partitura. Il protagonista è invece Baiazet, imperatore ottomano detronizzato: a lui era non a caso intestato il dramma di Piovene prima d’essere revisionato da Haym per Händel, e il pasticcio vivaldiano basato sugli stessi versi – curiosità significativa – si intitola Baiazet nell’originale della partitura ma Il Tamerlano nel libretto divulgato a stampa; proprio in nome della centralità del personaggio, ancora, Händel rimodellò da capo sul carisma scenico del primo interprete un’opera altrimenti già bell’e completata: il discorso innanzitutto teatrale pretendeva un ulteriore sforzo. Secondo le logiche musicali, all’opposto, la squadra virile della compagnia di canto è capitanata da chi tiene la parte di Andronico: un personaggio meno avvincente di Tamerlano, col suo sadico dispotismo, nonché di Baiazet, con la sua fierezza perentoria, e fatto invece di eleganti affetti amorosi utili non tanto al principesco controllo dell’azione quanto alla magnifica galleria delle arie; tanto basta a farne il primo uomo storico, quello che per apparente inconsistenza drammatica non dà pace al regista contemporaneo e quello che per manifesto primato retorico interessa innanzitutto al musicologo che scrive.

La lunga premessa tornerà utile nell’inquadrare il Tamerlano tuttora in scena al Teatro alla Scala: sette recite dal 12 settembre al 4 ottobre e – cosa che più conta – sette recite affollatissime, ad ammonire i teatri italiani circa la predilezione con la quale il nuovo pubblico reclama Händel. Onore alla Scala per non essersi fatta cogliere impreparata e per aver organizzato le cose in grande. È la sua stessa orchestra, infiltrata da professori dei Barocchisti, a suonare con prassi esecutiva storicamente informata: essa dimostra la positiva e salutare disponibilità delle maestranze scaligere al rinnovamento artistico. Il nuovo allestimento con regìa di Davide Livermore, scene di lui stesso e Giò Forma, costumi di Mariana Fracasso, luci di Antonio Castro e video di D-Wok fa compiacere, a sua volta, per entusiastico scialo di risorse scenografiche. Livermore è tra i pochi che, chiamati al penoso rito d’includere una nota di regìa nel programma di sala, sappia offrire argomenti al lettore anziché esplicitargli la propria inadeguatezza con un’excusatio non petita. Il problema si annida nella conversione dal progetto drammaturgico alla sua coerente realizzazione scenica.

Si assiste qui a una trasposizione, visivamente formulata in ordine colossale, dalla Bitinia medievale alla Russia – cent’anni fa tondi tondi – della Rivoluzione d’ottobre. Fra campi di battaglia, bombardamenti, stanze imperiali desolatamente depredate e viaggi in treno tra Mosca e Pietroburgo, Baiazet prende i panni dell’ultimo zar Nicola II, Andronico quelli idealisti di Lenin e Tamerlano quelli dittatoriali di Stalin. Funziona, ma soltanto finché la regìa non calchi la mano per adeguare forzatamente il dramma di Piovene-Haym a – passi l’ossimoro; anzi, ci si mediti su – una storia reale inventata, perdendo di vista l’intimo e pedagogico interagire dei personaggi. Cosa che puntualmente avviene: sia intervenendo sul corpo originale della partitura, invece congegnata da Händel con efficacia definitiva, sia sostituendo al testo teatrale in sé il trito pre-testo del teatro della meraviglia, qui fatto di macchine che sono treni, scalinate e video anziché barocche architetture trompe-l’œil. Pretesto, si diceva, ché il Tamerlano sarebbe ed è moderna tragedia settecentesca di matrice francese, intenta a educare commuovendo assai più che a divertire meravigliando.

La virtù di saper commuovere e insieme meravigliare spetta nondimeno al primo uomo qui in carica e alla prima donna che ne condivide il grado. Lui è Franco Fagioli, il massimo controtenore dei nostri giorni: la parte di Andronico, schiettamente contraltile, gli preclude l’esibizione di un’intera ottava che egli possiederebbe sino al Re sopracuto; gli rimane – e basta a far strame di ogni collega – un porgere sempre caricato di tensione emotiva, un canto d’agilità con semicrome sgranatissime, uno stile così generoso da sfidare l’igiene vocale e consegnare all’uditorio procedimenti tecnici da intenditore; questi sono gli stessi che si conoscono dalla letteratura sul canto dei castrati nell’età di Händel: per esempio quando, fin dalla prima aria, Fagioli porta il registro di petto sino alla nota più alta della prima ottava, opponendogli poi quello di testa con vistosa, incisiva, virtuosistica frattura timbrica ed emissiva. La sua controparte, come Asteria, è Maria Grazia Schiavo, l’unica della compagnia che possieda alla perfezione la prosodia italiana, con la sua franca comunicativa esente da calligrafismi e con la sua inesauribile miniera d’inflessioni retoriche: anche in virtù di una linea di canto immacolata, ne deriva un personaggio struggente, tanto mirato al punto nella psicologia quanto vario di risorse nel costituirla.

Quanto a Plácido Domingo, ovvia è la sua scarsa affinità stilistica alla poetica e alla scrittura händeliana: vi è arrivato solo poiché attratto dalla statura teatrale del personaggio di Baiazet, alla quale sa però accoppiare la propria in energico spolvero attoriale. L’unica menda è nei momenti d’amnesia: l’agio estensivo nella tessitura baritenorile, che oggi gli si addice appieno, il timbro inconfondibile, la fermezza dell’emissione, la generosità della risonanza e la fierezza dell’accento sono ancora al loro posto e fanno dubitare della preferenza data per abitudine a sedicenti specialisti di questo repertorio.

Si eclissano, al confronto dei tre grandi, il secondo uomo e la seconda donna. Al petulante controtenore Bejun Mehta, ronzante nel canto e censurabile nella pronuncia, prossimo al ridicolo quando alla parola ‘garristi’ (II, iv) insiste onomatopeicamente sulle liquide onde voler sembrare più idiomaticamente italiano di un madrelingua, corrisponde un Tamerlano caricaturale, incapace di formulare la terribile megalomania a sé sottesa; in tal modo, ancor più fuori luogo risulta la pretesa – infondata e dunque ingannevole dal punto di vista filologico: le cosiddette arie di baule erano regolate da altra prassi – di sostituire la pomposa e vanitosa aria «Bella gara che faranno» con la trionfante e radiosa «Sento la gioia», pescata dall’Amadigi händeliano di ben nove anni prima, nonché da tutt’altra una situazione drammatica. Modesta è a sua volta Marianne Crebassa nella parte d’Irene: a dispetto dell’intenso battage pubblicitario mosso negli ultimi tempi intorno alla cantante, non le si possono riconoscere ancora la proprietà stilistica, la scioltezza espressiva e l’onestà tecnica in merito alle quali Händel, il pubblico italiano e la Scala devono astenersi da sconti. D’altra parte, su questi punti giunge ben preparato anche l’ultimo in gerarchia quanto a dramatis personae: come Leone, è il baritono Christian Senn.

Bifronte, infine, il resoconto intorno alla concertazione di Diego Fasolis. A questo direttore spetta il merito raro di saper animare la partitura händeliana con gesto musicale assertivo, vivido, attento a cogliere e restituire il fine drammaturgico dei profili melodici e delle strutture compositive, ricollocando in ultima istanza il Tamerlano nella coturnata scala tragica che gli pertiene. Perplessità, invece, quando egli sente la necessità di sposare per iscritto – lo si legge sempre nel programma di sala – posizioni registiche di per sé contrarie alle ragioni musicali; o quando, dopo aver ammesso l’inammissibile aria dall’Amadigi, sfavillante della sua tromba concertante, va ad aggiungere un’altra improbabile parte di tromba a «Ciel e terra armi di sdegno»: nello studiato orizzonte timbrico che imbibisce l’intero Tamerlano fino al funebre finale e all’artificiosa riconciliazione, mediante il tenue, flebile e piangente controcanto di flauti dolci, traversieri, oboi e chalumeaux, quegli squilli accolti a cuor leggero sono esattamente ciò che Händel aveva stabilito di escludere dalle tinte dell’opera.

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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