L'eterna eleganza
di Luigi Raso
Torna sulle scene partenopee lo storico allestimento mozartiano di Giorgio Strehler, che conserva intatta la sua freschezza come uno dei più perfetti allestimenti d'opera mai prodotti. Ottimo il cast vocale e attoriale capitanato da Maria Grazia Schiavo, corretta e misurata la concertazione di Hansjörg Albrecht.
Napoli, 7 novembre 2017 - È un sovrano illuminato e magnanimo quello che nel finale de Die Entführung aus dem Serail perdona e libera le due coppie di giovani amanti Belmonte-Konstanze e Pedrillo-Blonde; e in tutto questo giovanile Singspiel di Mozart si respira anelito di libertà.
Mozart poteva sentirsi un uomo libero in quel biennio (periodo insolitamente lungo) 1781-1782 durante il quale scrisse Die Entführung aus dem Serail: si era da poco trasferito a Vienna, liberandosi dalla sottomissione all’Arcivescovo Colloredo di Salisburgo, suo datore di lavoro, e dalla soffocante potestà del padre-padrone Leopold, nonché sposando, senza il suo consenso, nella stessa città Constanze Weber qualche giorno dopo la prima rappresentazione del Singspiel.
Il 16 luglio del 1782 al Burgtheater di Vienna (il vecchio teatro non esiste più, essendo stato abbattuto e riedificato nel 1888 sul Ring; ne resta però l’elegiaca rievocazione di Stefan Zweig ne Il mondo di ieri e un dipinto di Klimt) va in scena il primo grande capolavoro del genere Singspiel, genere artistico fortemente incoraggiato dall’imperatore Giuseppe II nel tentativo di arginare lo strapotere dell’opera italiana e francese in Austria: Mozart realizza “quel singolare connubio di allegrezza e di tenera malinconia che ne costituisce il fascino segreto” (Massimo Mila).
Al San Carlo, per ricordare il ventennale dalla scomparsa di Giorgio Strehler e il decennale dello scenografo Luciano Damiani, riapproda (nel 1982 era stato rappresentato al Teatrino di Corte di Palazzo Reale), ripresa da Mattia Testi, la mitica produzione firmata del 1972 per la Scala di Milano (a Salisburgo era stata allestita già nel 1965), una tra le più felici sintesi tra spettacolo registico e musica mai prodotte in Italia. La longevità dell’allestimento ne è dimostrazione.
Su quinte sceniche dai colori pastello e illuminate, attraverso la contrapposizione tra luci e ombre che delineano raffinate silhouette, fanno teatro le persone (non personaggi, segnando la commedia mozartiana il passaggio da stereotipati personaggi a uomini e donne dotati di propri sentimenti e psicologia) le quali, come la sottile ambiguità della musica del genio salisburghese, prendono identità nella luce e la perdono nell’ombra.
Parlare di raffinatezza e coerenza drammaturgica per un allestimento di Strehler è come portare vasi a Samo: eppure, a dispetto dell’età, questa messinscena mostra come poche la sua freschezza, vitalità e la sintesi tra leggerezza e profondità. Una regia, curata fin nei minimi particolari da Mattia Testi, che sembra tradurre nel gioco scenico il credo estetico di Mozart, espresso in una lettera al padre Leopold del 1781, secondo il quale “Le passioni, violente o no, non devono mai essere espresse fino al punto da suscitare disgusto e la musica, anche nella situazione più terribile, non deve mai offendere l'orecchio, ma piuttosto dilettarlo e restare pur sempre musica”.
Volendo alludere alla risposta di Mozart all’infelice, quanto insulso, giudizio attribuito a Giuseppe II su quest’opera (“Troppe note, Mozart!” - “Esattamente quelle necessarie, Maestà!”), potrebbe dirsi che in questa regia non c’è un movimento, un orpello, un oggetto in più che non sia essenziale alla drammaturgia e alla traduzione visiva delle intenzioni dell’autore. Less is more, anche (e soprattutto) in teatro.
I costumi di Luciano Damiani (ripresi da Sybille Ulsamer) connotano fedelmente quella contrapposizione tra cultura occidentale e Turchia tanto presente nel libretto: settecenteschi i vestiti dei quattro prigionieri; ispirati alla moda delle turcherie, in voga nell’Europa del XVIII secolo, con tanto di turbanti a bulbo e scimitarre, quelli di Osmin, Selim e dei Giannizzeri.
In sintesi, un allestimento, imperniato su una onnipresente eleganza visiva, che non si stanca mai di rivedere, malgrado la sua storicità.
Nel segno della misura, che però a tratti sembra prosciugare l’opera di fantasia, anche la direzione, corretta e senza sbavature, di Hansjörg Albrecht, il quale ricava dalla sempre affidabile orchestra del San Carlo sonorità leggere, precise e luminose; una concertazione, quella del direttore tedesco, che tiene ben uniti palcoscenico e orchestra, coniugando asciuttezza e precisione con un accompagnamento vocale ben ponderato.
Incisivo, al netto di qualche leggera imprecisione del settore femminile, il coro diretto da Marco Faella.
Sul piano vocale la produzione è dominata da una fuoriclasse, Maria Grazia Schiavo: l’interpretazione di Konstanze sembra ulteriormente maturata rispetto al già lusinghiero esito raggiunto nello stesso ruolo al Teatro dell’Opera di Roma nel 2011, sotto la direzione di Gabriele Ferro.
Voce dal bel timbro, ben proiettata, corposa nel registro centrale e acuto, ma un po’ sfuocata in quello basso, la Schiavo è dotata di un’agguerrita tecnica vocale che le consente di affrontare, a stretto giro e con esiti felicissimi, l’elegiaca e meditativa "Traurigkeit ward mir zum Lose" e la successiva funambolica "Martern aller Arten". Quest’ultima, vera e propria aria da concerto per struttura e per il concertino iniziale, è messa in scena facendo guadagnare al soprano l’estremità del proscenio, con il sipario del boccascena chiuso e semilluminando il teatro.
Le agilità e gli acuti sono precisi, tondi, l’interpretazione fremente: al termine dell’aria la sala le tributa meritatissimi e calorosi applausi.
L’interpretazione del soprano partenopeo, oltre che per l’ottima resa tecnica, si impone per la sfaccettatura dell’interpretazione e per la capacità di riuscire ad emozionare. Una conferma della sua caratura artistica dopo il successo personale riscosso come Lucia lo scorso mese di marzo, sempre al San Carlo.
Il cast vocale davvero ben assortito schiera Steve Davislim, specialista, per spessore vocale e stile del repertorio mozartiano, il quale, grazie alla gradevolezza del timbro, alla fluidità dell’emissione, solo a tratti sforzata, probabilmente a causa della stanchezza accumulata, ha delineato un sognante Belmonte.
Alla coppia Konstanze-Belmonte si contrappongono specularmente l’arguzia e la simpatia scenica della Blonde di Regula Mühlemann e del Pedrillo di Mert Süngü: eccellente la prova del giovane soprano svizzero, dalla voce corposa, dal bel timbro, ricca di armonici e scenicamente ineccepibile. La serenata ("In Mohrenland gefangen war") di Pedrillo è un piccolo gioiello di cesello e fraseggio, grazie all’appropriato uso di mezze voci. Una interpretazione molto convincente per stile, omogeneità e corposità della voce, all’occorrenza ben sfumata, quella di Mert Süngü, che ritorna al San Carlo dopo aver interpretato Arlecchino nei Pagliacci nel 2014.
Completa il cast il buffo Osmin di Bjarni Thor Kristinsson, dalla profonda e tonante voce di basso, appropriata per il ruolo, molto popolaresco, del sorvegliante del palazzo del Pascià. Molto apprezzate dal pubblico le sua gag comiche con Pedrillo nelle parti recitate.
Karl-Heinz Macek veste autorevolmente i panni del Pascià Selim, che, com’è noto, non ha parti cantate, eppure è proprio all’apparente truce sovrano ottomano che Mozart riserva l’illuministico messaggio finale (“Nulla è più odioso della vendetta - essere umani, buoni e perdonare – ecco i segni di un’anima grande!”), testimonianza di quella “religione del perdono”, umana, molto umana, sublimata nelle battute finali delle successive Nozze di Figaro e Così fan tutte, e che costituisce uno dei pilastri del teatro mozartiano.
Al termine il pubblico tributa un vivo successo - meritatissimo - a tutti gli artefici delle spettacolo, uno dei migliori della stagione 2016-2017 la quale, chiudendosi nel segno di Mozart, passa il testimone alla prossima apertura (9 dicembre) con La fanciulla del West di Giacomo Puccini. Da non perdere!