Thielemann, nera Götterdämmerung
di Francesco Lora
L'allestimento con regìa di Decker mostra ormai anni e punti deboli, ma la ripresa alla Semperoper si avvale di mostri sacri del presente wagneriano: oltre Thielemann e la Staatskapelle, cantanti come la Stemme, Dohmen e Struckmann.
DRESDA, 5 novembre 2017 – Non è gran cosa, l’ormai vecchiotto allestimento della Götterdämmerung di Wagner coprodotto con il Teatro Real di Madrid e tornato alla Semperoper di Dresda, per tre recite isolate, dal 29 ottobre al 5 novembre. Nella regìa di Willy Decker, nelle scene di Wolfgang Gussmann e nei costumi di questo stesso e Frauke Schernau, lo spettacolo lascia agli occhi il minimo necessario; anche nell’idea teatrale si adagia però su qualche didascalia, riuscendo infine inerte e svanendo di ripresa in ripresa. La gratuita invenzione di una violenza sessuale di Hagen su Gutrune, quella della vendetta di quest’ultima che uccide il fratellastro con la sua stessa lancia, o il muto e impotente apparire di Wotan presso Brünnhilde nell’ora dell’olocausto della figlia amata, sono tutte licenze più avvincenti se raccontate in una recensione che se sperimentate nel vivo della sala.
A rendere però di precetto le nuove recite dresdensi è una locandina musicale che colleziona mostri sacri del presente wagneriano. La via interpretativa è perentoriamente stabilita dai padroni di casa. Innanzitutto la Staatskapelle reca in dote il solito vertiginoso suono fatto con gli splendori dell’oro massiccio e insieme con le trasparenze e le increspature della seta: in quest’occasione, nondimeno, scende nel golfo mistico con un’inusuale riduzione nel numero degli archi – i contrabbassi si fermano appena oltre la metà degli otto d’ordinanza – e con un balzo in primo piano della corazzatissima schiera di ottoni. Al concertatore Christian Thielemann non è infatti mai interessato più che in questa occasione indagare i lati neri, aspri, scabri, torbidi, caustici della partitura: smantella il Walhalla di preziosismi e gigantismi, e accondiscende a concisione, acredine e asciuttezza d’eloquio.
L’evoluzione di carriera ha da poco rivelato in Nina Stemme una Kundry d’eccezione; pur nella progressiva limitazione del registro acuto e nell’ispessimento di quello centrale, ella rimane tuttavia ancor oggi una Brünnhilde di riferimento, ferma nell’emissione vocale come nella risolutezza espressiva, permeata tuttavia da un velo d’esitazione, timidezza, pudica ma calda mollezza femminile. Pare quasi una madre nei confronti di Siegfried, e a maggior ragione se questo è interpretato da Andreas Schager con impulsività adolescenziale, sfrontata dovizia di decibel, sostanziale disinteresse alle occasioni d’enfasi epicheggiante. Con Albert Dohmen e Falk Struckmann insieme in scena, pare d’essere al cospetto di un doppio Wotan; il primo è invece un Alberich di singolare acume, terribilità e autorevolezza, mentre il secondo è un Hagen svettante nel canto, e personaggio fatto volgare da un attore fino.
La mediocrità di Gunther fa tutt’uno – ed è un complimento – con la dubbiosa monotonia posta in essere da Iain Paterson. Discorso affine per Edith Haller: conferisce a Gutrune l’attrattiva esteriore di un canto radioso, ma nelle ultime scene sa porre il pianto della donnetta ingannatrice a dovuta distanza dal colossale testamento di Brünnhilde. Impegnata a giorni alterni anche come Didon nei Troyens [leggi la recensione], Christa Mayer attira un’attenzione specifica sulla sua ennesima Waltraute: come sospettato, l’affannata scrittura wagneriana non valorizza al pari di Berlioz il pregio dello smalto vocale, ma la cura troiana sembra aver instillato nella valchiria una nuova sollecitudine espressiva. Trionfo annunciato. Altre recite il 20 gennaio e il 4 febbraio prossimi, nell’àmbito di cicli interi del Ring des Nibelungen; ma attenzione ai cambi di cast, con Petra Lang in luogo della Stemme.
foto Klaus Gigga