Un mosaico di culture
di Stefano Ceccarelli
L’estone Paavo Järvi e il greco Leonidas Kavakos tornano nei cartelloni dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia con un programma del massimo interesse: il raro Béla Bartók con la Suite di danze, Sz 77 e il Concerto per violino e orchestra n. 2, Sz 112 e la Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 73 di Johannes Brahms. Il concerto è eccellente e accoglie gli incondizionati favori del pubblico. Si tratta di un concerto che unisce due interpreti di culture diversissime, come quella estone (Järvi) e la greca (Kavakos), che si propongono di interpretare due musicisti di culture altrettanto differenti, come quella romena (Bartók) e tedesca (Brahms), con risultati stupefacenti.
ROMA, 18 marzo 2017 – Béla Bartók, compositore eccezionale e difficile, non gode, purtroppo, di grandissima popolarità nelle sale da concerto, ancora perlopiù assestate sul repertorio che dal classicismo porta al tardoromanticismo. Due notevoli interpreti, l’estone Paavo Järvi e il greco Leonidas Kavakos, riportano nei cartelloni dell’Accademia due composizioni bartokiane da tempo assenti: la Suite di danze e il più famoso Concerto per violino n. 2.
Nel primo dopoguerra, quando l’Europa cercava di raccogliere i cocci di un conflitto mai così sanguinoso come la Grande Guerra, a Bartók la citta di Budapest (1923) commissionava un pezzo a carattere nazionalistico che festeggiasse il cinquantesimo anniversario dell’unificazione delle due città sulle sponde del bel Danubio blu: Bartók diede «un poema coreografico» costituito da una «particolare sintassi di canti popolari ungheresi, rumeni e arabi» (E. Girardi, dal programma di sala). Il risultato è stupefacente: Bartók ci fa godere i più disparati sapori e profumi musicali balcanici e orientali. Järvi dona ritmo, con senso puramente coreutico; è attentissimo alla pulizia sonora e ai contrasti smaglianti dei diversi colori: l’orchestra suona magnificamente. Järvi esalta un’eccellente scrittura, che vede l’alternarsi di caratteri diversi, in un senso di «affratellamento dei popoli, l’affratellamento ad onta di tutte le guerre e tutti i contrasti» (B. Bartók, lettera a Beu del 10-01-1930).
Per il Secondo concerto entra sul palco l’amatissimo Leonidas Kavakos, violinista di raro talento. Il concerto, impervio soprattutto per la ricerca di un giusto carattere interpretativo, vede Kavakos, già nell’Allegro non troppo (I), a suo agio con una scrittura ricca di dissonanze, di arditi passaggi, molto varia nei colori e nelle nuance. Il greco trova la giusta musicalità nel gesto sicuro, elegante, fermo che lo contraddistingue: la cadenza esce stupenda nelle sue atmosfere sospese, ravvivate dalle dissonanze ordite ad arte, dove Kavakos dà saggio di tocco e gusto. Stupenda la sinergia fra Järvi, Kavakos e l’orchestra nell’Andante tranquillo (II), dove riescono a creare atmosfere magnifiche: Kavakos arriva quasi, in pianissimo, a sfibrare il suono delle corde, creando un sibilo, un respiro del violino assolutamente inimitabile. Particolarmente arditi i passaggi sulle trame pizzicate degli archi, dove Kavakos dà saggio di grande controllo ritmico: le variazioni scorrono con smagliante musicalità. Eccellenti i due interpreti e, naturalmente, l’orchestra nell’ultimo movimento, dove il virtuosismo la fa giustamente da padrone. Grandi e calorosi applausi per uno dei beniamini dei concerti dell’Accademia: Kavakos regala, prima di uscire, un bis bachiano (a memoria dovrebbe essere la Partita n. 2 per violino solo).
La seconda parte è dedicata alla monumentale Quarta sinfonia di Brahms. Järvi, fin dall’Allegro non troppo, riesce a trovare un suono squisitamente brahmsiano, portando l’orchestra a un corposo impasto sonoro in grado di generare volumi saldi e ben compatti: l’estone è molto attento a far emergere i due differenti temi della ‘forma sonata’ in grande lirismo, a dare drammaticità allo sviluppo, non scordandosi di conferire risalto al carattere pastorale dei corni. Järvi è bravo anche a marcare – come Brahms volle – in senso drammatico il II movimento (Adagio non troppo). Nel III (Allegretto grazioso) Järvi, proprio per onorare al meglio quel ‘grazioso’, accompagna l’orchestra con una gestualità vieppiù espressiva, azzeccata per l’insolita commistione di una sintassi così marcatamente e puramente ritmica, quasi una danzante tarantella di pizzicati d’archi, al cui interno sono incastonati dolcissimi episodi ‘in trio’. E l’estone non poteva mancare di spaginare un finale potente, esaltando tutti i rivoli di ritmi e facendoli convogliare in una genuina apoteosi finale che scatena il pubblico in sala.