Il demone di Sokolov
di Roberta Pedrotti
Audace e straordinario, ispirato e cangiante, Grigory Sokolov chiude la stagione di Musica Insieme con Mozart, Beethoven e sei fuori programma.
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BOLOGNA, 15 maggio 2017 - Definire Grigory Sokolov un pianista e questo, sic et simpliciter, un recital pianistico è come una freccia che colpisca il bersaglio senza conficcarsi nel centro esatto: non improprio, ma nemmeno esatto.
Questo è uno dei casi in cui il programma è concepito e sviluppato in una testi interpretativa, in un’opera d’arte poetica che va oltre le categorie consuete, come già suggerisce l’annullamento dei confini nelle due parti, parallele, in cui si articola: di Mozart, prima, e Beethoven, poi, si eseguono due sonate – una dalle forme più classiche (rispettivamente, la n.16 KV 545 in do maggiore e la n. 27 in mi minore op. 90) seguita da una seconda più ardita e complessa (Fantasia e Sonata KV 475/457 e Sonata n.32 op. 111, entrambe in do minore) – senza soluzione di continuità, quasi facessero parte di un unico discorso che, avanzando, si fa sempre più complesso.
In queste arcate si estende il pensiero musicale di Sokolov, straordinariamente consapevole e coerente nel controllo di una varietà cangiante di accenti, colori, dinamiche, rubati: tutto soppesato con tale arte, una tale profonda intelligenza da nobilitare una tavolozza tanto ampia da poter costituire persino un’insidia, una tentazione all’abuso. Invece il puro dato tecnico sembra passare in secondo piano, perché totalmente votato all’idea dell’interprete: non si ascolta attenti alla perfezione assoluta, bensì rapiti dal genio dell’artista. Ciò non significa, naturalmente, che Sokolov non sia in possesso di una tecnica eccellente, ma che mai come in questo caso essa sia mezzo e non fine, tant’è vero che i trilli infiniti della Sonata n. 32 di Beethoven risultano sì sbalorditivi per qualità, rapidità, agilità, ma anche se non soprattutto per la loro sopraffina modulazione dinamica, per l’eloquenza espressiva, per l’intreccio sapiente con il controcanto melodico delle altre dita. Già nelle prime battute di quella Sonata n. 16 in do maggiore, che Mozart compose con la classe del genio ma con intenti più didattici che artistici, incanta: il basso albertino riluce di uno splendore che non avremmo saputo immaginare nel cliché galante dell’arpeggio alla mano sinistra che alleggerisce la base armonica della melodia offrendo altresì all'interprete meno scaltrito perniciosi allettamenti al lezioso e al meccanico. Sokolov riesce a infondervi un colore argentino che subito fa pensare, in effetti, all’automatismo di carillon e altri marchingegni alla moda all’epoca di Mozart, ma accende anche la fiammella di Prometeo e infonde man mano vita alla materia interte. L’iterazione astratta, oggettiva – con spirito modernissimo che sa guardare al Settecento con la consapevolezza di chi ha vissuto il Novecento – si anima man mano nel più fine gioco di colori e dinamiche. La galanteria si fa Illuminismo, l’Illuminismo si scioglie nel sentimento di Rousseau, nei turbamenti Sturm un Drang, nello struggimento della Sehnsucht, ma tutto filtrato da uno sguardo che viene da lontano, analitico e sintetico, capace di osservare in profondità e modellare la musica con una classe che non cede a compromessi e segue, imperterrita la meta prefissa.
La cura suprema del dettaglio sempre coerente, sempre consequenziale nel delineare quest’unica grande arcata, si impone, poi, quando accenti e rubati esaltano nelle loro metamorfosi la costruzione tematica in Beethoven, la dialettica di allusioni, rimandi, echi, riprese fra cellule melodiche, armoniche e ritmiche anche minime. Questa giostra calibrata nell’infinitesimo scorre, tuttavia, con la naturalezza sublime del flusso di un’ispirazione poetica fulminante e trascendentale, come appaiono trascendentali alcuni incisi in cui il suono sembra rarefarsi diafano, venire da un’altra dimensione e ricongiungerci a un iperuranio ben familiare a Sokolov e vagamente demoniaco. Qui si dipana anche quella premonizione jazz che non viene enfatizzata, indulgendo come sarebbe facile, troppo facile fare: traspare vispa e ben articolata nell’eleganza potente di un tocco ispiratissimo, che dipana un fraseggio ora levissimo, quasi astratto e sfumato, ora più denso, ora pesato con esattezza puntuale, ora elastico, come se la nota rimbalzasse fra le dita.
L’organismo animato dal demone di Sokolov nelle due coppie di sonate avvince con l’audacia decisa che ne delinea le proporzioni, i movimenti, i caratteri e gli atteggiamenti: personali al limite della sfrontatezza, ma ammaniti con tale meditata intenzione da porsi in un equilibrio tanto delicato quanto, alla fine, perfetto.
Al momento dei bis, il macrocosmo si condensa in particelle purissime, come se tutti gli elementi dipanati in precedenza nell’ampio abbraccio fra le sonate di Mozart e Beethoven ora si presentassero singolarmente nelle miniature dei sei fuori programma. Ecco l’intimità poetica di un Momento musicale (op. 94 n. 1 D 780) di Schubert in punta di dita fra l’oscillare meccanico di note ribattute e lo sciogliersi di un pathos più mobile; ecco il canto trascendente che alla cantabilità nulla concede in due Notturni di Chopin (il n. 1 e il n. 2 op. 32), arabeschi di rubato; ecco che nell’Indiscrète di Rameau non scimmiotta il clavicembalo, ma lo evoca con la misura di un tocco guizzante e leggiadro; ecco l’Arabesque vero e proprio, quello ben noto di Schumann, liquido ed elastico ma ancora non privo di forza, quella stessa forza che riposa nella gravità del sesto e ultimo bis: il Preludio op.28 n.20 il cui denso color nero si dispiega e si sfuma anche in un pedale ora saggio quanto imprevedibile protagonista.
Sala affollatissima, pubblico festante ma anche sollecitato alla riflessione e al dibattito per questa chiusura di stagione di Musica Insieme. Un concerto che sarà difficile dimenticare.