L’armonia dei contrari
di Stefano Ceccarelli
L’ Accademia Nazionale di Santa Cecilia ospita il consueto annuale concerto di Grigory Sokolov. Il programma di quest’anno vede affiancati Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven. Il primo tempo, mozartiano, contiene la Sonata in do maggiore K 545, la Fantasia in do minore K 475 e la Sonata in do minore K 457; il secondo, beethoveniano, la Sonata n. 27 in mi minore op. 90 e la Sonata n. 32 in do minore op. 111. Alla fine, una sequela di bis. Il concerto accoglie, come sempre per Sokolov, un notevole successo di pubblico.
ROMA, 27 marzo 2017 – Una sala gremita fin negli spalti accoglie con un applauso l’ingresso di Grigory Sokolov: come oramai di consuete viene a far visita al pubblico romano dell’Auditorium Parco della Musica. Il programma, questa volta, è un dittico perfettamente simmetrico: Mozart e Beethoven. Sokolov, noto per la precisione con cui affronta uno stesso programma nelle più importanti sale al mondo, per la volontà di perfezionarsi costantemente su un medesimo gruppo di opere, sceglie quest’anno una ben precisa sequenza di opere pianistiche, un vero e proprio gradus ad Parnassum che dalla K 545 di Mozart arriva all’op. 111 di Beethoven, una pietra miliare della storia della musica.
Per chi – come me – ha studiato pianoforte, la Sonata in do maggiore K 545 è associata ai primi studi sulle sonate mozartiane, finanche ai saggi di fine anno. La scrittura, di una semplicità abbacinante, è quella tersa del più puro Mozart. Sokolov ci fa sognare intensamente: tale, infatti, la naturalezza esecutiva, da lasciare basiti in un’opera così ‘semplice’. L’argentino colore del I movimento, la cullante melodia del II, le spiritose movenze del III: Sokolov ci dà un saggio di grande verità esecutiva, di filologia applicata, facendoci ascoltare minimali variazioni della scrittura (piccoli gruppettini, abbellimenti della linea) che evocano l’estemporaneità su un testo dato che caratterizzava ogni esecuzione settecentesca. Poi, la drammaticissima Fantasia K 475, resa da Sokolov con inusitata intensità romantica, ai limiti dell’ammissibile – quasi – per l’estetica mozartiana: scandisce ogni nota, procede per chiare campiture coloristiche e volumetriche, sfumate romanticamente in punti chiave del discorso, senza però perdere la cristallina chiarezza della scrittura del salisburghese (soprattutto nelle sezioni dell’Allegro e dell’Andantino). La drammaticità è palpitante, volutamente calcata, assai personale: si può qui ascoltare un esempio di quel pianismo ‘mistico’ tanto invocato per Sokolov, che a mio avviso sta, più che nel misticismo in sé, nell’esigenza di librare una poetica personalissima oltre il testo, basandola spasmodicamente su una ricerca timbrica, peraltro assai ammirevole. Senza soluzione di continuità, Sokolov attacca il Molto allegro (I) della Sonata K 457: ancora tende a risaltare lo spirito intimamente drammatico del movimento, alternando colori intensi a sfumature meno nette, creando effetti quasi inauditi, a tratti ‘gouldiani’ (ma senza abusare dell’agogica). Magnifica la transizione finale, tutta sottovoce ma fantasticamente eterea; senza obliarne, ancora, il carattere drammatico. Chiara luminosità emerge dal II movimento; del III, magnifico il colore lievemente bruno, ancora drammatico che dona a alcuni passaggi, dove il tema principale sembra quasi un triste carillon.
Al primo tempo mozartiano s’oppone dualmente il secondo, tutto beethoveniano. Nella Sonata n. 27 op. 90 Sokolov porta ancor più avanti il logos drammatico iniziato con le precedenti composizioni mozartiane, stemperandolo con una vaga sensualità che molti hanno – giustamente – ravvisato nel pezzo. Non fatica, dunque, a entrare nel temperamento beethoveniano, nel I movimento dell’op. 90, fatto di contrasti: ammirevole, certo, la sua ricerca dell’intimo spirito erotico (Sokolov ce ne fa render conto nell’uso sapiente delle sfumature ritmiche). Di un eros molto più dolce e luminoso – ove il precedente era puro contrasto – lo stupendo II movimento, dove ancora il pianismo di Sokolov indulge in un romanticismo ante litteram (qui, forse, neanche troppo), alla perenne ricerca della perfezione del suono. Il suo personalissimo sorvolare, quasi, sullo spartito, alla ricerca del suono perfetto, non mi pare tolga qualcosa allo spirito erotico, sebbene abbia nell’orecchio interpretazioni certo più ‘calde’: Pollini, o Gilels per esempio. Il concerto giunge, dunque, al Parnassus: l’op. 111 di Beethoven, pieno «“terzo stile”, un poema» come scrive Rattalino nel magnifico programma di sala. Il Maestoso (I) scorre con bachiana nettezza, soprattutto nei suoi sussulti di fuga: Sokolov acuisce i contrasti, facendoli emergere come un bassorilievo, rallentando, dilatando i momenti e le pause. L’Arietta (II) è eseguita da Sokolov con serena, placida esposizione, con quella calma che si deve a taluni momenti delle Goldberg di Bach. Sokolov, poi, s’addentra – con linguaggio agogico e timbrico sovente assai personale – nell’insondabile mondo delle variazioni di questo movimento: crescendo di difficoltà ritmiche, interpretative, le variazioni dell’op. 111 vanno oltre la musica per come la si poteva concepire all’epoca di Beethoven. Incredibile, in tal senso, la terza variazione: siamo di fronte al jazz? Al boogie-woogie? Ancora Sokolov dà il meglio di sé quando c’è da accarezzare i tasti: la quarta variazione mostra proprio la fatata mano del pianista nelle cromature acute in contrasto con la brunitura degli arabeschi della sinistra, nei bassi. Trilli stupendi inanella, quasi dei filati, Sokolov, prima di chiudere la sonata. Il pubblico esplode in fragorosissimi applausi: siamo alla standing ovation. Sokolov, sempre schivo, timido, si rimette alla tastiera, regalandoci ancora l’oramai prevedibile terzo tempo del concerto: il primo dei Sixmoments musicaux di Schubert, il primo e il secondo dei Notturni dall’op. 32 e il ventesimo dei Preludi op. 28 n. 20 di Chopin, l’Indiscrète dai Pièces de clavecin en concerts di Rameau, l’Arabesque di Schumann.
O lo si ama o lo si odia, Sokolov: forse non ci possono essere zone grigie di giudizio per il suo pianismo, così terso tecnicamente eppur così personale interpretativamente, talvolta fuori dalle righe, ma capace di emozionare folle intere di appassionati.