Un degno suggello
di Stefano Ceccarelli
Il secondo dei due concerti tenuti da Yuri Temirkanov chiude la stagione regolare dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che si appresta a regalare, comunque, emozioni anche estive. Sia nel primo sia nel secondo concerto, Temirkanov sceglie la produzione tardoromantica. Questa sera ci regala, in Ringkomposition studiata, la Francesca da Rimini, fantasia da Dante per orchestra op. 32 e la suite de Il lago dei cigni di Pëtr Il'ič Čajkovskij: incastonati nel mezzo, i Tre canti russi op. 41 di Sergej Rachmaninov, l’ultimo dei romantici. Il concerto è stupendo e suggella degnamente una straordinaria stagione.
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ROMA, 15 giugno 2017 – L’ultimo concerto della stagione regolare dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia non delude le aspettative del molto pubblico affluito: è il secondo dei concerti previsti con al podio l’inossidabile Yuri Temirkanov. Per chiudere in bellezza, il russo non può che scegliere due delle corone della produzione nazionale: Čajkovskij e Rachmaninov. Il programma è di quelli che strappano una lacrima alla fine (e, in questo caso, anche all’inizio): dalla Francesca da Rimini, ai Tre canti russi, fino a concludere con la suite del Lago, terminante col finale catartico della morte (nella versione che mi piace immaginare – così anche Čajkovskij) di Siegfried e di Odette.
Ma s’inizia anche, come dicevo, con le lacrime: la musica di Čajkovskij, del resto, trasuda gentilmente dramma umano. La fantasia dantesca Francesca da Rimini inizia in medias res, con la catabasi di Dante al quinto girone: Temirkanov, con quel suo gusto da scultore, rende palpabile il timore dantesco di scendere negli inferi e rende viva, sfrenando l’orchestra, la tempesta che avvolge i lussuriosi. Tutto è rotto dall’assolo del clarinetto, delicatissimo, commovente, struggente: Temirkanov allarga garbatamente i suoni in un’oasi estatica ove i timbri dei legni rappresentano i palpitanti sentimenti della riminese, in un monologo ‘polifonico’ che risponde a quello, tragicamente teatrale, del V canto della Divina Commedia: il russo è attento a ogni screziatura, in questo monologo che è una calda rêverie dei passati, incolpevolmente adulterini, amori di Francesca. Temirkanov fa dialogare stupendamente le voci del dolore compartecipe di Dante, del silenzio ‘tragico’ di Paolo e della rassegnata mestizia di Francesca: la conclusione è di impareggiabile colore, soprattutto nella ripresa della tempesta. Temirkanov riceve meritati applausi.
All’entrata del coro dell’Accademia, si attaccano i Tre canti russi di Rachmaninov, d’un notevole realismo, ma non certo scevri di quella malinconia tipicamente slava, come l’ultimo dei romantici sapeva ben fare. Il primo canto, che termina col pianto dell’anatro che ha perduto la sua anatra, a lui involatasi, ci fa perfettamente scorgere il lavoro di cesello di Temirkanov: ritmo pieno, sfumature tenui e canto ben scandito del coro. Molto espressivo, il coro dei contralti, anche nel secondo brano, un tipicissimo lamento di fanciulla abbandonata (al suocero malvagio…). La maggiore ironia del terzo canto, sul tradimento, è esaltata da Temirkanov, che non dimentica, comunque, l’ombroso carattere squisitamente slavo. Applausi attestano ancora il gradimento del pubblico. Lodi al coro dell’Accademia.
Il secondo tempo chiude l’intera stagione con una delle partiture più icastiche della cultura occidentale: Il lago dei cigni. La suite che ne venne cavata non fu di mano del compositore, che morì senza aver sentore del reale, tangibile successo del suo capolavoro. Temirkanov infonde subito intensa trepidazione nel celeberrimo tema della ‘morte del cigno’ (scena d’apertura del II atto), nel languido assolo dell’oboe che s’adagia sul tremolo degli archi e gli arpeggi dell’arpa: l’orchestra è perfettamente compatta, omogenea. Il suono è smagliante e tal è anche nell’altrettanto celebre Valzer (II), in cui il russo porta a danzare le compagini degli archi con le dolcezze dei legni. Un pizzico di ironia Temirkanov infonde nella Danse de cygnes (II), accentuando il puntato dei fagotti, ben scandito, e gli arabeschi degli archi. L’adage del pas de deux di Siegfried col cigno nero, Odile, è porto in tutto il suo tripudiante splendore, soprattutto nell’assolo del violino e nel breve dialogo col violoncello, su una bruma di pizzicati d’archi e legni. Temirkanov sottolinea il carattere coreutico, qui più marcatamente esornativo, dei divertissement della festa di fidanzamento del principe: la Csardas, la spagnola, la napoletana e la mazurka. Nel finale IV il russo profonde una drammaticità che trasuda, quasi, epicità, non obliando l’intenso erotismo che pervade tutto il pezzo: la tensione sale fino al momento dell’annegamento di Siegfried e di Odette (o qualunque versione si voglia immaginare: purché tragica!), e il tutto si stempera nel cambio di colore tonale, che sembra trasfigurare la tragedia appena avvenuta. Applausi caldissimi per questo stupendo concerto, che suggella una straordinaria stagione.