Niente eroine per Verdi
di Francesco Lora
Ravenna Festival tende la mano a Tehrān nell’àmbito delle Vie dell’amicizia, con un programma tutto verdiano e interdetto alle protagoniste femminili. Muti ne è interprete di sempiterno riferimento, mentre le voci soliste sono quelle di Salsi, Pretti e Zanellato.
RAVENNA, 8 luglio 2017 – In Iran la donna può far parte di orchestre e cori, ma dà scandalo se si esibisce come solista. Al tradizionale appuntamento delle Vie dell’Amicizia, quest’anno indirizzato da Ravenna a Tehrān, il programma presentato da Riccardo Muti è così stato forzatamente declinato al maschile: un attesissimo concerto nella capitale iraniana il 6 luglio, la replica due giorni dopo nel Pala De André di Ravenna, musiche tutte di Giuseppe Verdi, Orchestra giovanile “Luigi Cherubini” e Coro del Teatro Municipale di Piacenza miscelati con gli omologhi tehrānesi – a contare gli chādor rossi e gialli si calcola invero una buona metà femminile – e voci soliste del tenore Piero Pretti, del baritono Luca Salsi e del basso Riccardo Zanellato. Nessun soprano ammesso per le arie della Duchessa Elena, di Elisabetta di Valois, di Amelia Grimaldi e di Lady Macbeth; tre voci virili si sono invece spartite brani, dalle stesse opere, sul valore della libertà e sulla tirannia esecrata.
Nella sortita di Procida dai Vespri siciliani, Zanellato tira via il recitativo, «O patria, o cara patria, alfin ti veggo!», e inizia ad assestarsi nel cantabile, «O tu, Palermo, terra adorata»; si ripresenta dignitosamente con la sortita di Fiesco dal Simon Boccanegra, «A te l’estremo addio, palagio altero ... Il lacerato spirito», e con la scena di Banco dal Macbeth, «Studia il passo, o mio figlio ... Come dal ciel precipita»; ma il timbro permane povero di armonici, l’emissione ruvida e forzata sul passaggio, il fraseggio piuttosto sommario e l’intonazione talvolta imprecisa: scherzi del surmenage Iran-Italia aggravati dal caldo torrido di Tehrān e dall’afa di Ravenna? Più disinvolto e signorile è Pretti, a dispetto di un calibro vocale non sempre a misura dell’ultimo poderoso Verdi: intona più con aristocratica alterigia che con focosità furibonda l’aria di Gabriele Adorno dal Simon Boccanegra, «O inferno!... Amelia qui!... L’ama il vegliardo! ... Sento avvampar nell’anima ... Cielo pietoso, rendila», ed è lirico, dolente e accurato nel cantabile di Macduff dal Macbeth, «Ah, la paterna mano», senza mancare d’energia nelle cabaletta seguente. Nel duetto «Dio, che nell’alma infondere», dal Don Carlo, unisce inoltre il proprio canto, come protagonista, a quello di Salsi, come Rodrigo: ed è subito Salsi a imporsi come re della festa, con quella sua linea vocale sempre facile, smaltata, risonante, riconoscibile al primo colpo, duttile alle sfumature e chiara nella pronuncia; a volergli imputargli un difetto, lo si trova nel suo «Pietà, rispetto, amore»: non è infatti necessario né azzeccato evocare la malvagità di Macbeth attraverso accenti rozzi e grotteschi, ché al contrario la tirannia pretende d’essere insospettabile ed è calcolatrice nei suoi pensieri. Ai brani detti si affiancavano la Sinfonia dai Vespri siciliani, in apertura, e quella dalla Forza del destino, in chiusura, nonché il coro «Patria oppressa! Il dolce nome» e il finale Inno di vittoria dal Macbeth.
Non fosse stata censurata la Gran scena del sonnambulismo, dell’ultima opera citata si sarebbe potuto presentare per intero l’atto IV anziché tre sue distinte estrapolazioni; e il programma rimane comunque penalizzato dalla riduzione all’osso di ciascun brano: alla sortita di Procida mancano l’introduzione strumentale e l’orgogliosa cabaletta, mentre il duetto di Carlo e Rodrigo è eseguito solo a partire dai rintocchi della campana. Non rimane infine che da ripetere l’estasiata litania sull’arte concertatrice di Muti come interprete verdiano di sempiterno riferimento: anche con organici di non primissimo ordine tecnico, e anche con noiose restrizioni politiche e cronometriche, impareggiabili rimangono la misura dell’incedere benché elettrizzante per tensione, la precisa volontà d’illuminare ogni dettaglio senza possibile riscontro di calligrafismo e il bel compiacimento d’illustrare la mai abbastanza compresa grandezza dell’orchestratore.
foto Silvia Lelli